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Da La Gazzetta del Mezzogiorno di Mercoledì 22 Gennaio 2003

Il pentito Architetto
«Io della strage non so nulla»

 

VEGLIE - Il pentito Andrea Architetto è stato il protagonista dell'udienza di ieri nel processo-bis per la strage della Grottella, nato dopo le dichiarazioni di Vito Di Emidio, e che vede alla sbarra Marcello Ladu, Antonio Tarantini e Pasquale Tanisi. Il collaboratore di giustizia, collegato in videoconferenza con l'aula della Corte d'Assise, è comparso davanti ai giudici come imputato di reato collegato e, quindi, alla presenza di un difensore. E' stato interrogato perché, almeno in tre episodi, avrebbe fatto parte della banda di Di Emidio. «Ma non so nulla della strage di Copertino - ha spiegato il pentito - Allora ero già a Bologna». Architetto ha ricostruito le fasi delle rapine compiute - a suo dire - insieme con Ladu, Tanisi e Di Emidio («più altri due che non conoscevo»). Le rapine sono quelle messe a segno a Gallipoli (in una villa), ad una rivendita di tabacchi e ad alcuni spacciatori di Nardò «ai quali togliemmo mezzo chilo di cocaina e otto chili di fumo». Quanto all'inizio della sua partecipazione con il gruppo di Di Emidio, Architetto ha aggiunto che «tutto è cominciato dopo aver allacciato amicizia con Tanisi». Il processo riprenderà l'11 febbraio. Solo qualche giorno fa Architetto è stato condannato a Bologna per un traffico di droga sull'asse Salento-Romagna.

 

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia e da La Gazzetta del Mezzogiorno di Mercoledì 17 Settembre 2003

dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 17/09/03

Un nuovo pentito conferma la versione di Di Emidio nel processo in Assise

«La strage? Colpa di Tanisi»

 

Ottobre del 2000: era l'occasione buona. Il filone mesagnese della Sacra corona era caduto in disgrazia. Marcello Laneve, 30 anni, di Brindisi, uomo fidato di Vito Di Emidio, stava raggiungendo in auto il suo capo latitante in una zona di campagna non lontana dalla sua città. Parlava con i suoi pari, Rocco Cannone. Si discuteva della possibilità di non perdere il treno e di unirsi ad altri personaggi della malavita brindisina  per controllare l'intero capoluogo, per dissanguare a botta di tangenti i commercianti. Ma Laneve, gregario di "Bullone", non si fidava dei suoi concittadini. «I brindisini sono tutti canterini», aveva detto durante il tragitto. «La questura scoprirebbe tutto nel giro di pochi giorni».
Marcello Laneve ora è "canterino". Ha cambiato idea. e da ieri è ufficialmente, dopo il deposito dei verbali delle sue dichiarazioni fatto dai pm Guglielmo Cataldi e Patrizia Ciccarese, il nuovo pentito del processo in Corte d'assise sulla strage della Grottella, a Copertino, lo spietato assalto a due blindati della Velialpol, in cui, il 6 dicembre del '99, morirono tre guardie giurate. In giudizio si trovano Roberto Tanisi di Ruffano, Antono Tarantini di Monteroni, e Marcello Ladu di Nuoro, difesi dagli avvocati Pantaleo Cannoletta, Alfredo Cardigliano e Luigi Corvaglia. In altri filoni della stessa inchiesta sono stati condannati all'ergastolo i sardi Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau; a 16 anni, con rito abbreviato, lo Stesso Di Emidio, che con il suo pentimento ha fatto luce su quella strage, sulla rapina di un mese prima ad un altro portavalori della Velialpol sulla Veglie-Leverano e su altro ancora; a 4 anni, infine, un altro brindisino, Fabio Maggio, accusato solo di quest'ultimo colpo.

E proprio di questo assalto ha parlato per primo Laneve: «La sera stessa, dopo quell'episodio, mi sono incontrato con Fabio Maggio a Brindisi. Arrivò su un coupé con Di Emidio e Ladu. In quell'occasione Maggio mi regalò dieci milioni, frutto di una rapina ad un furgone portavalori commessa quello stesso giorno. Mi disse che venne utilizzato un camion e mi parlò della pazzia di chi era alla guida, che si era lanciato contro il furgone per fermarlo. E alla guida mi disse che c'era Tarantini».

E poi Laneve ha parlato della strage. Dice di aver saputo i particolari mentre col gruppo progettava una rapina ad un altro furgone portavalori sulla Bari-Brindisi. Di Emidio gli avrebbe detto che «in realtà i morti che c'erano stati a Copertino erano avvenuti per colpa di Tanisi, che aveva collocato la bomba sul furgone, provocando tutti quei danni senza peraltro poter sottrarre nulla dal blindato».

Quanto al suo pentimento, Laneve ha spiegato: «Da gennaio 2001, da quando sono detenuto, non ho ricevuto alcun aiuto dai miei amici».


da La Gazzetta del Mezzogiorno del 17/09/03

Nuovi retroscena dal racconto di Marcello Laneve

Strage alla Grottella: Ancora un pentito

 

Dopo la strage di Copertino, il gruppo di Vito Di Emidio aveva programmato un altro assalto ai portavalori. Il piano era stato anche studiato nei particolari, ma poi è sfumato. A rivelarlo è un aspirante collaboratore di giustizia. Marcello Laneve, 29 anni, di Brindisi, ex compagno di scorribande di Bullone, da qualche giorno sta fornendo il suo contributo per fare luce sui retroscena della strage della Grottella: «Ho deciso di collaborare con la Giustizia perché da quando sono detenuto non ho mai ricevuto nessun aiuto dai miei amici».
Da ieri le dichiarazioni fanno parte del processo bis per il tragico assalto ai furgoni della Velialpol in cui persero la vita tre guardie giurate: Rodolfo Patera, Raffaele Arnesano e Luigi Pulli. Una parte dei componenti del commando è già stata condannata: i cognati sardi Pierluigi Congiu e Dianlui De Pau sono stati condannati all'ergastolo; Vito Di Emidio ha rimediato 16 anni.
Da ieri è ripreso in Assise il processo ad Antonio Tarantini di Monteroni, Pasquale Tanisi di Ruffano e il sardo Marcello Ladu, difesi rispettivamente dagli avvocati Pantaleo Cannoletta, Alfredo Cardigliano e Luigi Corvaglia. A causa dello sciopero degli avvocati non s'è fatto nulla. L'unica novità è venuta dall'Accusa: i pm Guglielmo Cataldi e Patrizia Ciccarese hanno annunciato il deposito delle dichiarazioni di Marcello Laneve.
Il personaggio è noto alle cronache. E' in carcere dal gennaio del 2001. E di recente è stato colpito da un'ordinanza di custodia cautelare.
Nell'interrogatorio del 12 settembre scorso, davanti ai sostituti procuratori Cataldi e Ciccarese, Marcello Laneve svelato il piano di assaltare un furgone portavalori della Sefi «che proveniva da Bari e che quasi giornalmente si recava presso la centrale della Sveviapol di Brindisi». Durante la preparazione del colpo Di Emidio «mi disse, forse anche per incoraggiarmi che i morti che c'erano nella rapina di Copertino erano avvenuti per colpa di Pasquale Tanisi che aveva collocato la bomba sul furgone provocando incautamente tutti quei danni, senza peraltro poter sottrarre nulla dal secondo portavalori».
Ed è proprio sul ruolo di Tanisi che Laneve offre maggiori particolari: «Che preparasse le bombe ne sono certo perché in diverse occasioni ed in particolare in occasione della preparazione della nuova rapina al furgone portavalori io stesso le ho viste. Le bombe erano rotonde e tutte avvolte da nastro adesivo; il Tanisi preparava anche l'innesco. Vi era poi un ferro filato preparato a gancio per poter sistemare la stessa bomba alla maniglia del portellone del furgone. Della rapina al secondo furgone portavalori, il Di Emidio non mi specificò più null'altro. In occasione della nuova rapina erano già rubati due furgoni a Grottaglie, di un fuoristrada a Carosino ed una 164. Siamo usciti per assaltare il furgone della Sefi, ma in ben due occasioni ci è sfuggito. Dopo il mio arresto non se ne fece nulla».
Nelle dichiarazioni di Laneve c'è spazio anche per altri colpi: «Tra le varie rapine che abbiamo commesso assieme ricordo quella ad una famiglia di Casarano dove, però, asportammo solo telefonini. Ho partecipato anche ad una rapina in una villa (ma non ricordo il paese), ove portammo via 300 grammi di cocaina e dieci chili di hashish che erano contenuti all'interno di una valigia. Nell'occasione entrammo nell'abitazione armati di fucili e pistole».

 

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia e da La Gazzetta del Mezzogiorno di Venerdì 14 Novembre 2003

dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 14/11/03

Il Viminale nega il risarcimento, ma gli avvocati promettono battaglie

«I vigilante non sono vittime della mafia»

 

Un nuovo colpo di scena scuote la vicenda giudiziaria legata alla strage della Grottella, l'agguato d'efferata violenza firmato col tritolo della mala che fece ferro e fuoco, il 6 dicembre 1999, su un tratto della Copertino-San Donato assaltando due furgoni portavalori della Velialpol.

Tre vigilantes morti ammazzati, Luigi Pulli, Raffaele Arnesano e Rodolfo Patera tutti di Veglie e tre feriti, il bilancio dell'azione. Il Viminale ha ufficialmente rigettato l'istanza con cui i familiari delle guardie giurate trucidate chiedevano il riconoscimento dello status di vittime di mafia. Non vi sono i presupposti, pare, le famiglie quindi non otterranno il ristoro pecuniario previsto.

I legali di parte civile però, gli avvocati Gaetano Gorgoni, Ennio Cioffì e Claudio Di Candia, annunciano battaglia preparando un ricorso al Tar. Anche perché le liquidazioni previste secondo la prima strada intrapresa - quella appunto del decreto 510 - sarebbero pronte da tempo ma da tempo congelate.

«Non ci posso credere, è impossibile. Credono forse che col passare del tempo possa edulcorarsi il dolore ma non è così», le parole di Gianni Pulli, figlio di Luigi, carabiniere in servizio a Roma.

Uno spiraglio per fortuna però si intravede. Un cavillo che diventa, in casi come questo una fune, una vera e propria ancora di salvezza. Il legale della famiglia Pulli infatti, l'avvocato Maura Centonze, ha preferito seguire un iter diverso. Il quaranta per cento della somma è già stata elargita, l'estate di due anni fa e per il restante sessanta per cento si dovrà attendere ancora un pò. Della stessa azione hanno beneficiato inoltre le famiglie di Arnesano e Patera.

«Abbiamo in piedi un'azione civile come parte offesa contro l'assicurazione - spiega l'avvocato Centonze - pertanto possiamo considerarci in una botte di ferro da questo punto di vista». Luigi Pulli al momento della strage infatti rimase schiacciato dal mezzo degli attentatori che investì il portavalori.

Ancora pazienza invece per l'occupazione nella pubblica amministrazione garantita ad un congiunto di ognuna delle vittime. Sdoppiano un posto in pianta organica presso il comune di Veglie. Presto Anna Paola Pulli, una delle figlie di Luigi, e Romina lacovelli, vedova di Raffaele Arnesano, potrebbero avere un lavoro part-time. Per il resto, unanime la reazione davanti alla decisione del Viminale: «È stato fatto un passo indietro».

di F.P.

 

Il pm in Assise chiede il carcere a vita per Ladu, Tarantini e Tanisi

 

Ergastolo. E'questa la richiesta fatta dai sostituti procuratori Guglielmo Cataldi (della Dda) e Patrizia Ciccarese al termine della requisitoria dell'udienza di ieri del processo sulla strage della Grottella. Il magistrato ha chiesto il  carcere a vita per i presunti responsabili della morte dei tre vigilantes Luigi Pulli,
Raffaele Arnesano e Rodolfo Patera, ammazzati la mattina del 6 dicembre di quattro anni fa a colpi di bombe e colpi di mitra sulla strada della Grottella: Marcello Ladu, Pasqule Tanisi e Antonio Tarantini.

Il magistrato fece ed ottenne la stessa richiesta per Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau, processati in primo grado l'anno scorso. Il quinto componente del gruppo, il boss pentito Vito Di Emidio, è stato condannato a 16 anni di reclusione con il rito abbreviato. A difendere gli imputati, gli avvocati Pantaleo Cannoletta, Luigi Corvaglia e Alfredo Cardigliano.


da La Gazzetta del Mezzogiorno del 14/11/03

Le richieste del pubblico ministero, nella requisitoria di ieri mattina, contro i presunti autori della strage della Grottella: «Carcere a vita per i killer»
Ma ai parenti è stato negato l'accesso al Fondo di rotazione

 

Carcere a vita per i presunti autori della strage della Grottella. La pena è stata invocata ieri mattina al termine della requisitoria dal pubblico ministero Guglielmo Cataldi. Nel processo-bis per il sanguinoso assalto ai furgoni della Velilapol sono alla sbarra Pasquale Tanisi di Ruffano, Antonio Tarantini di Monteroni e Marcello Ladu, sardo d'origine ma che ha trascorso gran parte della sua latitanza nelle campagne intorno a Nociglia. La mattina del 6 dicembre del 1999 avrebbero preso parte alla rapina compiuta sulla Copertino-San Donato, poco prima dello svincolo della Lecce-Gallipoli. Tre guardie giurate rimasero sull'asfalto: Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli: altre tre furono ferite.
Il commando sarebbe stato composto da almeno sei persone. Tre sono già state condannate: a Vito Di Emidio, capobanda ed oggi collaboratore di giustizia, con l'abbreviato, sono stati inflitti meno di vent'anni. I due sardi Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau, arrestati poche ore dopo la rapina in una masseria di Melendugno, sono stati condannati all'ergastolo. E l'11 dicembre ci sarà l'Appello.
Conclusa la requisitoria (cominciata nella precedente udienza con l'intervento del sostituto procuratore Patrizia Ciccarese), però, l'udienza in Assise ha registrato un altro sussulto, per certi aspetti più clamoroso dell'invocazione del carcere a vita. Gli avvocati di parte civile, Gaetano Gorgoni ed Ennio Cioffi, hanno reso noto che il Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso ha negato ai parenti di due vittime (Raffele Arnesano e Rodolfo Patera) l'accesso al Fondo di rotazione. Contro questa decisione i due difensori hanno presentato ricorso al Tar, il Tribunale amministrativo regionale, per ottenere l'annullamento del provvedimento sia per motivazioni ritenute carenti ed irrazionali, sia per l'assenza di adeguata istruttoria della pratica.
Non più di due anni fa, esattamente il 23 febbraio del 2002, le vedove della strage della Grottella, hanno ricevuto la medaglia d'oro al valor civile del Capo dello Stato, nel corso di una cerimonia svoltasi in Prefettura.
Alla base dell'esclusione dal Fondo previsto per le vittime della mafia vi è il contenuto delle sentenze emesse finora sulla strage della Grottella. Sia in quella contro i sardi che contro Di Emidio non si fa riferimento ad associazione di stampo mafioso. Gli avvocati, però, contestano che la sola lettura delle sentenze possa essere sufficiente per negare l'accesso al Fondo di rotazione.
«E' mancata un'istruttoria adeguata - sostengono i due legali - altrimenti si sarebbe accertato che, dagli atti processuali, emerge che Vito Di Emidio, per sua stessa ammissione, risulta essere il solo capo del commando criminale composto da sei uomini e che faceva parte di un'organizzazione associata alla Sacra corona unita ed a questa versava buona parte dei proventi della sua attività».
Ma ritorniamo al processo. La prossima udienza è fissata per il 24 novembre. Cominceranno le arringhe dei difensori: gli avvocati Pantaleo Cannoletta, Luigi Corvaglia, Alfredo Cardiglian, Sergio Milia. Il primo dicembre, poi, la Corte, presieduta dal giudice Giacomo Conte, si ritirerà in camera di consiglio.

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia e da La Gazzetta del Mezzogiorno di Sabato 15 Novembre 2003

dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 15/11/03

Il "no" del Viminale al risarcimento per le famiglie delle vittime scatena la polemica

«Ministro, cambi idea sulla Grottella»

«Fu strage mafiosa», Rotundo chiama in causa Pisanu

 

Le vittime della strage della Grottella non sarebbero vittime della mafia. Quindi niente risarcimento per le famiglie. La notizia, pubblicata ieri dai giornali, ha fatto il giro del Salento (ma non solo) suscitando proteste, stupore e anche scandalo. Il ricordo delle tre guardie giurate della Velialpol trucidate dal commando di rapinatori guidato dal boss Vito Di Emidio, ora pentito, è ancora vivo nonostante siano quasi quattro anni.

E ieri l'onorevole diessino Antonio Rotundo ha scritto al ministro dell'Interno Beppe Pisanu, chiedendo il suo intervento. «La notizia che il Viminale ha rigettato l'istanza dei familiari di Luigi Pulli, Raffaele Arnesano e Rodolfo Patera, vigilantes trucidati il 6 dicembre '99 nei pressi della Grottella a Copertino, tesa ad ottenere il risarcimento dello status di vittima della mafia - scrive il parlamentare salentino -, ha destato una vasta eco negativa e persino incredulità nell'opinione pubblica salentina, che l'ha avvertita come un segnale di grave disattenzione se non di abbandono da parte dello Stato. Considero questa decisione, se confermata, un vero scandalo ed offensiva della memoria stessa delle tre vittime. Mi rivolgo pertanto a lei - aggiunge Rotondo - per chiederle, conoscendo la sua particolare sensibilità, un autorevole intervento affinché venga rivista tale incomprensibile ed assurda decisione e sia dato il giusto e meritato riconoscimento a chi è caduto innocente per mano della mafia facendo il proprio dovere sino in fondo».

Sull'asfalto, sotto i colpi di kalasnikov del commando assassino, caddero Luigi Pulli, Raffaele Arnesano e Rodolfo Patera. Era la mattina del 6 dicembre 1999. Da allora i familiari stanno aspettando non solo il risarcimento, ma anche che qualcuno mantenga altre promesse fatte nei giorni che seguirono la strage, a cominciare da un posto di lavoro per chi è rimasto solo.

Proprio l'altro giorno in Corte d'Assise la pubblica accusa ha chiesto la condanna all'ergastolo per i presunti responsabili: Marcello Ladu, Pasquale Tanisi e Antonio Tarantini. Altri due presunti responsabili sono già stati processati e il pentito Vito Di Emidio è stato condannato a 16 anni di reclusione.

Soprannominato "occhi di ghiaccio", tanto malvagio da far paura persino ad altri boss della Scu (lo stesso Filippo Cerfeda, l'ultimo dei superpentiti, lo ammette), Di Emidio ha guidato quel commando assassino. E' uno dei personaggi di spicco della Scu, ex amico e compare di tanti altri boss, ma questo non è stato ritenuto sufficiente a trasformare quelle povere guardie giurate in vittime della mafia. Secondo il ministero degli Interni non vi sono i presupposti per avviare le procedure che - in caso, appunto, di vittime della mafia - consentono di ottenere il risarcimento previsto dallo Stato. Ma se non è mafia quella, si chiede ora la gente, cosa è la Scu? Cosa i suoi boss? Una riposta, i familiari delle vittime della Grottella, se l'aspettano.
 

Una vergogna da cancellare

     E bravo il Viminale. E bravi gli alti funzionari dello Stato che dello Stato fanno gli interessi usando tutti i mezzi di cui sono specialisti: commi, cavilli e burocratese. Si dà il caso, però, che noi tutti si sia lo Stato. E quindi anche le vedove e i figli dei tre vigilantes della Velialpol trucidati alla Grottella. Chissà perché le vedove e figli sono un pò meno Stato di tante altre famiglie colpite dalla barbarie mafiosa.

     E già, il problema (incomprensibile ai più ma non ai grand-commis del Viminale) è capire e far capire cosa è mafia, chi e cosa è mafioso e chi sono le vittime della mafia.

     Dunque, per il Viminale Pulli, Arnesano e Patera non furono uccisi da membri della mafia bensì da delinquenti comuni e quindi le loro famiglie non hanno diritto al risarcimento dello Stato previsto per le vittime della mafia.

     Signori del Viminale, secondo voi chi è tal Vito Di Emidio, detto Bullone, se non uno dei capi della Scu salentina e brindisina, già condannato per mafia nel processo Cerbero a Brindisi, già socio nel contrabbando controllato da Scu e mafiosi albanesi in società con Cuomo e Prudentino?

     Ancora, secondo voi, gentili burocrati, che cosa sarebbe la Scu se non un'organizzazione mafiosa che semina sangue e terrore da decenni in tutta la Puglia ed in particolare nel Salento? Escluso che Di Emidio facesse parte di associazioni umanitarie o ricreative; escluso che Di Emidio si guadagnasse da vivere lavorando; accertato che reclutava uomini sanguinari, esperti in armi e sequestri, per il suo clan (banda? gruppo di fuoco? commando? decidete un pò voi); accertato che aveva basi logistiche, amicizie mafiose, complici, manovali e picciotti a cui dava ordini, potete spiegare a quelle povere vedove ma anche a tutta la comunità salentina perché mai quelli non sono morti di mafia?

     La vostra, cari burocrati del Viminale, è una decisione che indigna e ci fa vergognare per voi. Ma forse la vostra scelta ha una motivazione neppure tanto recondita: in tempi di magra per tutto il Paese (Tremonti imperante) di soldi ce ne sono pochi. Magari risparmiare qualche migliaio di euro fa bene all'Amministrazione e fa bene alla vostra carriera.

     Modesta proposta: il Viminale organizzi corsi pratici e teorici per aspiranti mafiosi e li munisca di patente con tanto di firma del ministro o del viceministro. Così, per il futuro, saranno evitate polemiche e dubbi. E chi dovrà morire almeno saprà se ad ucciderlo è stato un mafioso patentato o soltanto un sedicente mafioso.

di Q.


da La Gazzetta del Mezzogiorno del 15/11/03

Mantovano incontra i parenti dei vigilantes

 

VEGLIE - Il sottosegretario all'Interno incontra i parenti delle vittime della strage della Grottella. Alfredo Mantovano, questa mattina, sarà nella sede della Velialpol per incontrare vedove e figli. Si parlerà dell'esclusione dei famigliari dei vigilantes morti dal Fondo riservato alle vittime della mafia.
La questione, su iniziativa dell'onorevole Antonio Rotundo, arriverà anche all'attenzione del ministro Giuseppe Pisanu, sollecitando un suo intervento: «Considero tale decisione un vero scandalo ed è offensiva della memoria stessa delle tre vittime» scrive il parlamentare dei Ds.
La notizia è emersa nel corso dell'udienza in Assise del processo bis per la strage. I difensori di parte civile, gli avvocati Gaetano Gorgoni ed Ennio Cioffi, hanno reso noto la decisione del Comitato di solidarietà per le vittime di reati di tipo mafioso. Il provvedimento è stato impugnato davanti al Tar per ottenere l'annullamento.
«L'episodio - ha precisato Rotundo -ha destato una vasta eco negativa e persino incredulità nell'opinione pubblica salentina che la ha avvertita come un segnale di disattenzione se non di abbandono da parte dello Stato».
Al ministro, dunque, l'onorevole Rotundo chiede un intervento autorevole «affinché venga rivista tale incomprensibile ed assurda decisione e sia dato il giusto e meritato riconoscimento a chi è caduto innocente per mano della mafia facendo il proprio dovere sino in fondo».

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia e da La Gazzetta del Mezzogiorno di Domenica 16 Novembre 2003

dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 16/11/03

Strage della Grottella. Un ricorso riapre alle famiglie dei vigilantes la strada verso il risarcimento per le vittime della mafia

«Lo Stato non può abbandonarci»

Tre ricorsi per sperare nell'indennizzo

Le famiglie dei tre vigilantes uccisi nella strage della Grottella non ci stanno: private del risarcimento concesso dallo Stato per le vittime di azioni mafìose, ora sperano che vada in porto un ricorso presentato in appello contro il boss Vito Di Emidio. «Lo Stato, dicono, non ci può abbandonare».

Un ricorso in Appello, anzi due, contro la condanna del boss-pentito. Più una richiesta formale presentata l'altro giorno in Assise contro i suoi complici. Sono tre le strade ancora aperte - chiusa quella principale del processo di primo grado a Vito Di Emidio, prima carnefice e poi collaboratore di giustizia - per far ottenere ai parenti dei tre vigilantes uccisi alla Grottella il risarcimento dello Stato con la legge sulle vittime di mafia, la 512 del '99, nota come "legge Mantovano". Ma perché accada occorre che un giudice certifichi il fine mafioso
di quell'eccidio, e finora non è avvenuto. Finora.

Era il 6 dicembre del '99,  quel giorno; tre guardie giurate della Velialpol - Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli - furono trucidate dal gruppo Di Emidio (lui, il boss mafioso, fuoriuscito dalla Scu e, tuttavia, allora ancora mafioso), altre tre furono ferite, tutto per un assalto a due furgoni portavalori con tre miliardi di lire dentro. Il 20 dicembre del 2002 il giudice dell'udienza preliminare condannò con rito abbreviato Vito Di Emidio per quella strage, ma anche per una rapina ad un altro furgone della stessa Velialpol (2 novembre '99, sulla Veglie-Leverano) e per l'assalto alla gioielleria Valzano di San Pietro Vernotico (26 novembre '99). Sedici anni di reclusione, con la riduzione per lo status di collaborante pienamente conseguito e per le attenuanti generiche. Nessun riconoscimento per un'aggravante specifica contestata dal pm, la stessa che avrebbe consentito ai parenti dei morti (ma anche ai titolari della gioielleria) di ottenere subito il risarcimento previsto dalla "legge Mantovano": il fine specifico di agevolare, con quelle scorribande, l'associazione mafiosa.

«Tipologia extramafiosa» e «autonoma iniziativa criminale», per il giudice, quella di Di Emidio. Niente aggravante, niente indennizzo. Fine del processo di primo grado. Per i parenti dei vigilantes solo il risarcimento con un'altra legge, la 302/90 sulle provvidenze alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata: indennizzo incassato al 90 per cento dai familiari di Pulli; per i parenti di Patera e Arnesano solo al 20 per cento (ma a breve sarà anche questo al 90 appena la pratica sarà formalizzata). Niente 512/99, che garantisce ai parenti il risarcimento danni liquidato nel processo penale: paga lo Stato per evitare beffe nel caso di imputati impossidenti

Rammarico e lamentazioni. Ma ora una strada c'è. Ed è nel ricorso presentato dall'avvocato Paolo Spalluto, legale di parte civile per i titolari della gioielleria Valzano, e dallo stesso difensore di Di Emidio, Vera Guelfi. Entrambi contestano l'impostazione data in sentenza dal giudice: il fine di quelle azioni (dicono) era chiaramente mafioso, perché (come Di Emidio dice) quei proventi servivano a finanziare le attività del suo gruppo. Lo sostiene il legale di parte civile, e si capisce; ma anche lo stesso avvocato di Di Emidio, che dal riconoscimento dell'aggravante, per alcune combinazioni di norme, potrebbe spuntare un'ulteriore riduzione di pena. Ma non solo: l'identica aggravante è stata sollevata dallo stesso avvocato Spalluto nel processo di primo grado in Assise a carico dei complici di Di Emidio, vale a dire Marcello Ladu, Pasquale Tanisi e Antonio Tarantini, che hanno seguito un percorso processuale diverso: per loro l'accusa l'altro giorno ha invocato l'ergastolo, senza l'aggravante della mafiosità dell'azione, sin dall'inizio accollata solo a Di Emidio. Tuttavia il legale di parte civile ha chiesto alla Corte d'assise di contestare autonomamente quell'ipotesi, aggiuntiva, proponendo in alternativa non una sentenza ma un'ordinanza: gli atti vengano rispediti al pm perché integri l'accusa.

Il verdetto per questo giudizio è atteso per il 4'dicembre; il processo d'appello a Di Emidio non è stato ancora fissato. Per il risarcimento con la "legge Mantovano" non è ancora detto: il diniego può tramutarsi in assenso.
 

La sfuriata di Mantovano: «Giornalisti,che schifezza»

Mezz'ora con i parenti, poi l'attacco

     Poco più di mezz'ora a porte chiuse, per spiegare l'intervento del Viminale relativo al mancato riconoscimento dello status di vittime di mafia ai familiari dei vigilantes della Velialpol Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli. Così ieri mattina il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano ha incontrato a Veglie, nell'istituto di vigilanza, le vedove delle tre guardie giurate trucidate, nonché i superstiti, il direttivo e il legale Claudio Di Candia, avvocato della Velialpol.

«Per gli imputati della strage della Grottella - spiega Mantovano - il processo è stato diviso in due tronconi: un troncone ha riguardato soltanto Vito Di Emidio e si è concluso il 20 dicembre 2002 con il giudizio abbreviato e la sentenza del gup ha espressamente escluso il carattere mafioso della strage, parlando altrettanto espressamente di tipologia extramafiosa, frutto di un'autonoma iniziativa criminale del Di Emidio». E questo esclude il ricorso ai fondi destinati alle vittime della mafia. Un altro troncone, invece, è ora alle battute finali in Corte d'Assise.

Un indennizzo comunque c'è stato, dopo l'iter seguito dal legale della famiglia Pulli, avvocato Maura Centonze. Secondo la legge 302/90 sulle provvidenze alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, «è previsto un indennizzo che segua ad un'istruttoria in attesa della decisione definitiva di una provvisionale che in origine del 20 per cento». Con un decreto legge varato dal governo Berlusconi «e da me personalmente seguito - continua il sottosegretario -per conto dell'esecutivo in Parlamento, la provvisionale è stata aumentata al 90 per cento».

Dopo le spiegazioni tecniche, però, ecco l'attacco agli organi d'informazione, "rei" di aver commentato con sdegno la decisione del Viminale.

«Chi scrive "Una vergogna da cancellare" (con evidente riferimento a "Quotidiano" per l'articolo di fondo pubblicato ieri, ndr) ricordi che la vergogna è di chi scrive queste cose facendo demagogia a buon mercato, che è una cosa contraria a qualsiasi regola deontologica e di civiltà. Così si strumentalizzano i morti per vendere più copie di questo schifo», spara a zero Mantovano.

Un attacco preciso e mirato, nessun commento da parte di altri. Solo un coro unanime: «Vogliamo che si faccia quanto è
giusto, lo Stato non ci lasci soli». Sono le parole dei familiari
delle vittime.

di Fabiana Pacella

Gli insulti non ci fermano, siamo dalla parte della gente

     Davvero spiace dover constatare che il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, uomo di governo, di giustizia e un tempo di riconosciuto equilibrio, ieri mattina abbia perso improvvisamente qualcuna delle sue qualità lasciandosi andare ad una serie di pesanti offese contro questo giornale.

     Che lo faccia un politico è grave, che lo faccia un uomo i di governo dello status di Mantovano lo è ancora di più, per non dire di un ex magistrato per il quale l'equilibrio dovrebbe essere impresso nel Dna.

     Per la natura stessa di questo lavoro, fatto di idee e di opinioni, siamo abituati a rispettarle tutte, così come, però, pretendiamo rispetto dagli altri. Le idee le accettiamo tutte; per gli insulti e le offese abbiamo qualche difficoltà.

     Sulla vicenda dei risarcimenti alle famiglie delle vittime della Grottella sabato mattina Nuovo Quotidiano di Puglia ha pubblicato a pagina 17 un articolo di cronaca e un commento dal titolo: «Una vergogna da cancellare».

     Ritenevamo e riteniamo che la decisione del Viminale di accodarsi alla prima sentenza (il processo ad altri imputati è ancora in corso, poi ci saranno le decisioni di appello) con la quale si escludono le caratteristiche di mafia per quella rapina e per quella strage sia un errore grave. Un errore che produce danni economici ai superstiti dei tre vigilantes uccisi. Un errore al quale il governo (quindi anche Mantovano) possono e dovrebbero rimediare. Le leggi si sa, si interpretano anche. Se necessario si modificano, come è accaduto per i carabinieri uccisi in Iraq, o se ne fanno di nuove e ad hoc, come il governo in carica ci ha dimostrato in questi due anni e mezzo.

     Abbiamo espresso delle idee, come spesso facciamo. Eravamo e siamo con la gente, la nostra gente, i nostri lettori ma anche sempre e comunque con tutti i salentini di cui ci onoriamo di essere «il giornale». Per Mantovano questa è demagogia? Libero di pensarlo. Per noi è stare dalla parte della gente, guarda caso la più debole e indifesa. Per Mantovano questo è «strumentalizzare i morti»? Lo può pensare, se lo dice in pubblico se ne assume tutte le responsabilità: da viceministro, da cittadino, da salentino.

     Sostenere, come ha fatto, che «chi scrive e pubblica su Nuovo Quotidiano di Puglia queste schifezze lo fa per vendere qualche copia di più di questo schifo» (lo schifo è il giornale dunque, non l'articolo "incriminato" dall'ex giudice, equivale a insultare, a offendere, a diffamare. Il che poco si addice al ruolo di uomo di governo tutto d'un pezzo del dottor Mantovano.

     Ma tant'è, questo è accaduto. Per Mantovano la «vergogna da cancellare» è diventata «la vergogna di chi scrive queste cose contraria a qualunque regola di deontologia e di civiltà». A parte la solita lezione che tutti i politici, di professione o occasionali, amano dare ai giornalisti sulle regole del mestiere, a noi pare che «civiltà» vorrebbe che lo Stato, nella fattispecie rappresentato da Mantovano, chiedesse scusa a mogli e figli delle vittime della Grottella per non essere stato capace di mantenere le promesse, quante promesse, fatte nel dicembre del '99. Questa sarebbe la «civiltà» piacerebbe vedere nei comportamenti dello Stato.

     Un'ultima annotazione. Non vorremmo che Mantovano pensi o disegni chissà quali congiure da parte di questo giornale ai suoi danni o peggio ai danni di An, il suo partito. Le collezioni del giornale sono a disposizione di chiunque voglia consultarle. E, guarda caso, proprio oggi in prima pagina pubblichiamo un articolo del coordinatore provinciale di An Saverio Congedo.

     Dottor Mantovano, la democrazia è arte difficile da esercitare. Ci provi lo stesso.

di Giancarlo Minicucci


da La Gazzetta del Mezzogiorno del 16/11/03

L'incontro fra il sottosegretario AlfredoMantovan e i familiari delle vittime

Grottella, «ecco i risarcimenti»

L'esponente del Governo spiega in che modo si accederà ai fondi

«I benefici verranno dalla legge per le vittime della criminalità»

 

VEGLIE - VEGLIE - «I familiari delle vittime della strage della Grottella saranno risarciti, ma non con il Fondo di rotazione per i delitti di mafia». La notizia viene dal sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, il quale ieri mattina ha incontrato, nella sede della Velialpol, i parenti delle tre guardie giurate barbaramente uccise durante la rapina ai furgoni blindati dell'Istituto di vigilanza. Il sottosegretario ha chiarito gli aspetti della questione riguardante il mancato accoglimento, da parte del Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di mafia, della richiesta d'indennizzo ai sensi della legge 512 del 1999.

«La legge sulle vittime di mafia - ha spiegato Mantovano - prevede che chi si è costituito parte civile in processi per delitti di mafia può chiedere direttamente allo Stato, e non al condannato, di ottenere la somma che il giudice ha quantificato a titolo di risarcimento dei danni. La liquidazione viene disposta dal Ministero dell'Interno esclusivamente in base a quanto stabilito nella sentenza. Nel caso della strage della Grottella, nel processo riguardante Vito Di Emidio, il Gup ha espressamente escluso il carattere mafioso della strage. Si può condividere o meno questa valutazione, ma il Ministero è obbligato ad aderire a quanto stabilisce l'autorità giudiziaria».

Il sottosegretario ha spiegato, quindi, qual'è stata la soluzione che ha permesso di avviare, comunque, l'iter per l'indennizzo. E' stata utilizzata, in concreto, la legge 302 del 1990 sulle provvidenze alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

«Questa legge - ha chiarito Mantovano - prevede la  corresponsione di un indennizzo, con la possibilità, in attesa della decisione definitiva, di stabilire una provvisionale che il governo Berlusconi recentemente ha elevato al 90 per cento. Questa provvisionale così aumentata è stata disposta, finora, soltanto per i familiari di Luigi Pulli, con un provvedimento in corso di registrazione. Per i familiari di Raffaele Arnesano e Rodolfo Patera - ha concluso - il provvedimento sarà concretizzato prossimamente»,

di r.f.

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia di Lunedì 17 Novembre 2003

La polemica sulla strage della Grottella. Strana giustizia: a Brindisi capo della Scu, a Lecce semplicissimo assassino

Di Emidio, mafioso solo a Brindisi solo assassino a Lecce

La vicenda processuale del boss-pentito Vito Di Emidio, imputato principe del processo sulla strage della Grottella, ruota intorno a un suo presunto doppio ruolo: mafioso a brindisi e semplice assassino a Lecce. Intanto il suo avvocato ha presentato ricorso in appello: «Mafioso. Condannatelo».

Mafioso a Brindisi, cane sciolto a Lecce. Capo indiscusso di un agguerrito clan della Scu lì, semplice rapinatore e assassino una volta varcato il confine provinciale. Sembra un destino da "mafioso a chilometraggio", vissuto tutto su e giù lungo la statale 613 che lega Brindisi a Lecce e viceversa, un andirivieni misurato più dalle impennate del livello del 416bis che dal contakilometri. Vita spericolata - , „;: ^
boss sanguinario, quella di Vito Di Emidio, brindisino, ora pentito ma boss sanguinario fino al giorno del suo arresto, quando venne inseguito e acciuffato dai carabinieri il 28 maggio del 2001 a pochi chilometri da Brindisi. Per lui lì, quel giorno, elevato tasso di mafiosità. Poi il trasferimento nel carcere di Lecce. Era mafioso, Di Emidio, quando commise la strage della Grottella, lui con tutta la sua banda, il 6 dicembre 1999? Avvenne a Copertino, l'eccidio, una ventina di chilometri a sud della linea di demarcazione, territoriale e giuridica. La sentenza di primo grado il 20 dicembre 2002 lo ha escluso: «tipologia extramafiosa». Agli effetti civili, il verdetto vale a sancire l'impossibilità per i familiari dei tre vigilantes della Velialpol uccisi di accedere al fondo destinato alle vittime della mafia. Due ricorsi e mezzo (perché l'ultimo  tecnicamente ricorso non è) tenteranno di dimostrare il contrario.

Il concetto della natura «extramafiosa» dell'azione di Di Emidio (16 anni per lui in primo grado con rito abbreviato e attenuanti legate alla sua scelta di collaborare con la giustizia, tenuto conto oltre che della strage anche di due altre feroci rapine) è tornato giovedì scorso in aula, nella requisitoria con cui la pubblica accusa ha chiesto alla Corte d'assise la condanna all'ergastolo dei tre complici di Di Emidio nella strage e in altri assalti (Marcelle Ladu, Antonio Tarantini e Pasquale Tanisi). Qui la tesi dell'aggravante del fine di agevolare l'associazione mafiosa, pure contestata dal pm nel processo a Di Emidio (e mai ai suoi complici), s'è come dissolta: la stessa pubblica accusa ha spiegato come il boss ("Bullone" lo chiamavano negli ambienti) abbia agito da mafioso nel suo territorio, a Brindisi, ma non a Lecce e dintorni, dove con una squadra di assatanati delinquenti abbordava furgoni, sparava con il kalashnikov, piazzava bombe per far saltare i blindati (e pazienza se con le lamiere saltavano anche le guardie), programmava l'uccisione di testimoni oculari scomodi, vi rinunciava per motivi sopravvenuti e attuava scorribande notturne per incendiare 42 auto con l'obiettivo di inguaiare uno dei gruppi avversi in quel periodo sotto processo (a Gallipoli e Copertino, nel febbraio del 2000, urlo finale mentre le vetture in fiamme illuminavano la notte: "Dite ai carabinieri di non venire più a rompere i coglioni a Copertino").

Associazione per delinquere di tipo semplice, quella di Di Emidio e soci, alla fine. Perché sia mafiosa occorre altro, e altro serve perché in qualche modo si possa affermare che assalti e stragi servivano in qualche modo - anche solo in parte, anche solo attraverso Di Emidio - a favorire l'associazione mafiosa. Evidentemente. Lo ha detto un giudice, lo ha detto - raddrizzando il tiro - un pm. Dov'è la forza di intimidazione del vincolo associativo? Dove, la condizione di assoggettamento? Dove, il perseguimento di profitti o vantaggi ingiusti per sé e per altri? Già: dove?

Ma la giurisdizione si articola in tre distinti livelli, anche se i funzionari del Viminale si sono fermati al primo per negare le provvidenze della legge sulle vittime della mafia (salva la possibilità di rivedere la decisione in caso di diversa sentenza). E così contro l'esclusione del fine mafioso in favore di Di Emidio hanno presentato ricorso tanto i legali di una gioielleria assaltata dalla banda, gli avvocati Lavinia Gala e Paolo Spalluto, quanto lo stesso avvocato difensore di "Bullone", l'avvocato Vera Guelfi. Entrambi hanno agito per motivi pratici: riconosciuto quel fine (mafioso), la gioielleria potrebbe accedere ai fondi per le vittime di mafia (e a quel punto anche i parenti dei vigilantes, per l'applicazione estensiva della sentenza ai soli effetti civili e risarcitori), mentre la difesa del boss-pentito potrebbe spuntare un ulteriore sconto di pena perché un conto è dissociarsi da un'associazione semplice e un altro farlo da un'associazione mafiosa.

E comunque entrambi muovono da un dato di fatto oggettivo, al di là degli interessi di parte. Come scrivono gli avvocati Gala e Spalluto: «Vito Di Emidio ha confessato la sua natura
di callido mafioso (e al di là di questo una sentenza irrevocabile lo qualifica come associato al sodalizio criminale denominato Scu, ndr) indicando a sostegno di queste sue affermazioni anche le circostanze ineludibili che lo accreditano come tale (uccide il suo capo per prenderne il posto e depreda lo stesso di un bottino miliardario, poi a suo dire dissipato e, pertanto, introvabile). E lo stesso difensore del Di Emidio sintomaticamente insorge avverso la sentenza e, in maniera esaustivamente conclusiva, dichiara testuale: "Di Emidio era l'unico membro del commando a fare parte di una organizzazione criminale associata alla Scu e a questa versava tutti i proventi della propria attività"». Anche per questo giovedì scorso in Assise gli avvocati di parte civile hanno chiesto ai giudici - citando giurisprudenza della Corte di Cassazione - di valutare l'opportunità di contestare l'aggravante dei fini mafiosi ai complici di Di Emidio o, al più, di disporre ordinanza di trasmissione degli atti al pm perché elabori diversamente il capo d'imputazione originario.
 

Il legale: «Ha confessato, condannatelo per tutto»

     Tre pagine per un appello e la speranza di un ulteriore sconto di pena. Tre pagine per dare un volto diverso al processo, con differenti risvolti: perché se da un lato - in caso di accoglimento - si potrebbe aprire la strada al risarcimento dei parenti dei vigilantes freddati alla Grottella, dall'altro si otterrebbe un'ulteriore e consistente riduzione di pena per un boss sanguinario e spietato qual'è Di Emidio, transitato dopo il suo arresto nelle file dei collaboratori di giustizia, con corredo di benefici vari e sconti in caso di condanna.

Comunque, tre pagine. Le firma l'avvocato Vera Guelfi in nome e per conto di Vito Di Emidio. «Corettamente - scrive il legale nei motivi di appello contro la condanna emessa nel dicembre del 2002 - la sentenza ha definito centrale la figura del Di Emidio nel processo, centralità dovuta sia alle dichiarazioni rese che alla genuinità e linearità delle propalazioni. Il Di Emidio è credibile perché è indubbia la sua carriera criminale e il suo legame ai "protagonisti" delle rapine contestate; è credibile perché non ha deciso di collaborare per realizzare una vendetta personale; è credibile, infine, perché tutti i particolari delle azioni criminose sono stati oggettivamente riscontrati dall'autorità giudiziaria».

Perché non prenderlo in parola anche quando indica l'uso del denaro fatto? «Il giudicante - aggiunge infatti l'avvocato - non ha creduto a Di Emidio quando questi ha affermato che i proventi della propria attività criminale venivano utilizzati per mantenere i soci dell'associazione criminosa».

Conclusione: l'avvocato chiede la totale riforma della sentenza impugnata, con «giusta rideterminazione della pena».

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Dal Nuovo Quotidiano di Puglia di Martedì 18 Novembre 2003

Il giudice che ha firmato la condanna di Di Emidio spiega perché fu esclusa la tanto contestata aggravante

«La Dda per prima non credette alla mafia. L'eccidio non fu fatto per favorire la Scu»

Punto primo: mancavano gli elementi oggettivi per applicare all' imputato l'aggravante del fine mafioso quando, con un gruppo di feroci criminali, ha trucidato tre guardie giurate della Velialpol e compiuto altre rapine. Punto secondo: la stessa Direzione distrettuale antimafia ha avvalorato questa tesi, contestando inizialmente solo il 416 ordinario, riferito ad un'associazione per delinquere di tipo semplice, e ricorrendo solo a processo avviato ad una contestazione suppletiva con l'inserimento nel capo d'accusa del1'aggravante prevista dall'articolo 7 della legge sulla lotta alla criminalità organizzata.

In sintesi, ecco il pensiero del giudice Maurizio Saso, magistrato che, come gup, ha pronunciato il 20 dicembre 2002 la sentenza per Vito "Bullone" Di Emidio, il carnefice che guidò l'assalto ai blindati della Velialpol, a Copertino, il 6 dicembre 1999, e altri ancora, salvo poi pentirsi una volta arrestato il 28 maggio del 2001 alle porte di Brindisi, la sua città. Niente aggravante; e per i parenti dei tre vigilantes uccisi niente risarcimento con il fondo speciale previsto dalla "legge Mantovano" per le vittime di mafia (e solo di mafia).

Giudice, perché quell'aggravante non e stata riconosciuta?

«Il ragionamento fatto è di questo tipo: tornato in Italia dopo l'omicidio di Santino Vantaggiato in Montenegro, Vito Di Emidio si è dedicato alle rapine con un gruppo autonomo slegato dalla Scu. Una delinquenza di tipo comune che, al di       là dell'efferatezza dei delitti compiuti, esulava dalla mafia, sia per i metodi che per i fini»

Eppure Di Emidio, che si è addossato 22 omicidi e che, eliminato Vantaggiato, voleva assumere a Brindisi il pieno controllo del contrabbando internazionale di sigarette, si è sempre mosso secondo logiche mafiose, pur essendo essenzialmente un autonomo affiancato da uomini fidatissimi.

«L'inchiesta sulla strage e sulle altre rapine è partita con
una connotazione ben precisa: associazione per delinquere di tipo semplice. Solo alla fine c'è stata l'aggiunta di quell'aggravate specifica. Ma per riconoscere la mafiosità di una condota c'è bisogno dell'intimidazione del vincolo associativo, della forza di assoggettamento propria del gruppo. Reato con connotazioni mafiose può essere l'estorsione, non le rapine. Alla fine, nonostante l'integrazione successiva, a me è parso che l'impostazione iniziale data al processo dalla Dda fosse la più corretta. La stessa Procura antimafia evidentemente non credeva più di tanto alle implicazioni mafiose di quei delitti».

Ma è stato lo stesso "Bullone" a sostenere nella sua collaborazione, cui pure si è dato ampio credito, di aver destinato parte dei proventi di quelle scorribande all'associazione mafiosa. Non basta questo per riconoscere il fine specifico?

«Mancava la prova. Non è stata mai fornita da Di Emidio, e le sue parole non sono mai state riscontrate. Ma anche se lo fossero state si sarebbe comunque posto un problema di valutazione dei fatti: i soldi erano dati al clan nel suo insieme o solo al parente o al gruppo ristretto di Di Emidio? In quest'ultima ipotesi dubito che potesse configurarsi quell'aggravante».

L'avvocato difensore del boss pentito ha impugnato la sentenza di condanna da lei pronunciata: 16 anni senza aggravante. Se riconosciuta in Appello, quella contestazione suppletiva, per il concorso delle norme sui collaboratori di giustizia, porterebbe paradossalmente ad un'ulteriore riduzione di pena, che potrebbe scendere a dieci anni. Cosa ne pensa?

«Rimango della mia idea: non credo ci siano elementi per connotare quel gruppo come mafioso o le sue azioni come mosse da finalità mafiose. Certo, tutto appare sommamente ingiusto e iniquo dal punto di vista dei parenti delle vittime. Ma è l'effetto perverso di una combinazione di leggi, la stessa che ha portato il ministero a negare ai familiari delle guardie giurate uccise l'accesso al fondo per le vittime della mafia».
 

Imputato e parte civile, ragioni in cerca di diritto

     Due gli appelli proposti contro l'esclusione dell'aggravante mafiosa per Di Emidio, due le questioni che la Corte d'assise d'appello si troverà a discutere: una riguarda l'impugnazione presentata dallo stesso Di Emidio attraverso il proprio legale, l'avvocato Vera Guelfi; l'altra, invece, l'appello presentato dai legali Lavinia Gala e Paolo Spalluto in favore della gioielleria Valzano, di San Pietro Vemotico, assaltata dalla banda Di Emidio, che anche per questo è stato condannato. Entrambi chiedono il riconoscimento dell'aggravante. Con finalità diverse.

Di Emidio chiede per sé il riconoscimento di un'ulteriore condotta illecita, cosa che sarebbe preclusa dalla procedura se non fosse che attraverso la connotazione mafiosa della sua azione l'imputato può trarre una particolare attenuante prevista per chi si dissocia dai gruppi individuati dal 416bis. In questo caso otterrebbe una pena anche più bassa, da 16 a 10 anni. La questione è aperta. Ad ogni modo, il riconoscimento di quell'aggravante (ed è questo il nodo cruciale) consentirebbe ai familiari dei vigilantes uccisi di accedere al fondo di rotazione per le vittime della mafia.

Più complessa l'impugnazione dei legali della gioielleria, presentato ai soli effetti civili: la sentenza ha già previsto il risarcimento danni, liquidando anche una provvisionale. Che al ristoro possa adempiere, attraverso quell'aggravante, direttamente lo Stato è aspetto che consegue ad una eventuale sentenza favorevole per la parte civile. Ma per alcuni questa evenienza non deve costituire oggetto del procedimento penale. Si vedrà.

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