MINO DE SANTIS
In concerto all'Habanero Cafè
Giovedì 20 Settembre ore 23.00
Habanero Cafè - Veglie (Le)
Mino
De Santis è la voce unica e sincera
di un territorio che ha perso di
vista le sue radici e non ha più
voglia di raccontarsi. E lui arriva,
dopo anni di febbrile produzione
privata, al margine dei riflettori
per ricordarci chi siamo e per
sbeffeggiare una certa salentinità.
Dopo “Scarcagnizzu” (Fondo Verri)
esce in questi giorni il suo nuovo
album “Caminante” (Lupo Editore), il
sunto di uno stile che attinge al
popolare e lambisce la grande
canzone d’autore italiana, una
galleria di personaggi e di storie
che diventano simbolo di un’umanità
tenera e grottesca.
Le tue canzoni recuperano una
tradizione che il rumore dei
tamburelli, nel nostro territorio,
aveva un po’ coperto. Ci racconti
l’inizio del tuo scrivere?
Quando ho iniziato a scrivere, tanti
e tanti anni fa (avevo meno di 18
anni) la pizzica non era ancora quel
fenomeno di massa che poi è
diventato nell’arco del tempo, anzi
era piuttosto bistrattata e derisa
da molti. La musica popolare è un
veicolo importante per capire il
passato, la cultura e la società
della nostra terra, ciò che non ho
mai visto di buon occhio è la sua
decontestualizzazione, “l’uso
improprio”, quel divenire
esclusivamente motivo di svago, una
moda del momento… Le mie canzoni
credo raccontino una realtà vissuta
da tanti, una specie di
illustrazione che non ho mai pensato
potesse essere un’alternativa alla
musica popolare, non la vedo in
conflitto con essa, semmai può
essere un suo completamento o un
punto di osservazione diverso. Credo
ci sia bisogno di entrambe le cose,
il proseguimento della tradizione e
il nuovo inteso come scelta di un
linguaggio diverso ma parallelo a
quello della musica tradizionale.
Nel tuo ultimo album affreschi
un campionario umano, una sorta di
bestiario, cosa ti colpisce nelle
persone?
Le caratteristiche di ognuno, e
quelle di tutti i personaggi messi
insieme, diventano la carta
d’identità di un popolo, usanze e
modi di fare collettivi. Noi
salentini ci caratterizziamo da
altri popoli della Penisola, e direi
del mondo, per alcune abitudini e
modi di fare che sono solo nostri,
c’è però da dire che certi
personaggi, aldilà delle latitudini,
presentano delle affinità molto
simili, tali da farli somigliare un
po’ tutti vuoi per professione o per
estrazione sociale… mi colpisce la
psicologia di questi personaggi,
nella quale cerco di immedesimarmi.
La tua scrittura è critica nel
suo essere ironica. Cosa ne pensi di
questo Salento “alla moda”. Secondo
te cosa dovremmo proteggere e cosa
distruggere?
Dovremmo proteggere la nostra
identità, le mode non mi hanno mai
appassionato anche perché le vedo
come una sorta di appiattimento, di
omologazione e di allontanamento
dalla realtà vera. Il linguaggio del
popolo, così come le lotte e le
rivendicazioni passate, non devono
essere racchiuse in un’etichetta ben
sponsorizzata ma dovrebbero
viaggiare in modo autonomo, non
essere globalizzate né asservite a
una tendenza del momento. Non
sopporto sentir cantare canzoni di
lotta in contesti leggeri,
preconfezionati o patinati. La
decontestualizzazione della musica
popolare e delle canzoni di lotta
credo che sia uno dei soliti
tentativi delle classi al potere per
depotenziare la vera cultura
popolare… da qui la moda che va bene
a tutti: basta che ci sia un ritorno
in termini economici e di bussines;
l’artista quindi non deve mai essere
una specie di cortigiano e tenere
tutti contenti, ha il dovere della
verità e, perché no, di una certa
“purezza”.
Osvaldo Piliego
Intervista pubblicata su Nuovo
Quotidiano di Puglia di domenica 19
agosto
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