LETTERA APERTA A Sua Eccellenza Arcivescovo Rocco Talucci Ai Parroci delle Parrocchie Vegliesi
Ai Responsabili dei
gruppi ecclesiali Siamo semplici laici credenti, che conoscono da molti anni la storia della comunità vegliese, vivono in essa, con molti limiti personali, l’esperienza comunitaria della fede in Cristo e svolgono nella società civile il ruolo di consiglieri comunali. In occasione della prima Visita pastorale di mons. Rocco Talucci, dopo cinque anni di guida diocesana, sentiamo il dovere di porre alcune riflessioni, brevi e concrete, sul rapporto tra comunità ecclesiale vegliese e istituzione pubblica amministrativa in cui siamo stati eletti. Questi cinque anni sono stati caratterizzati dall’avvicendarsi problematico di due Consigli Comunali e di due Amministrazioni, dal radicarsi nella vita religiosa del paese della salutare istituzione della terza Parrocchia (S. Antonio) e, dopo la scomparsa di don Vito Frassanito, don Giovanni Tondo, don Giovanni Milanese e don Giovanni Luperto, da un ricambio delle guide pastorali con inevitabili conseguenze sia sul piano religioso che civile. Possiamo affermare con certezza che, in questi anni, sul piano dei principi, risulta acquisita, anche dalla coscienza popolare, l’autonomia organizzativa della comunità ecclesiale, la laicità dell’Ente Comune e la reciproca collaborazione per il bene di tutta la comunità locale.
Ma non è sui principi che vogliamo riflettere. Non intendiamo nemmeno
mettere sotto la lente di ingrandimento fatti specifici né tanto meno ci
sentiamo di aver titolo a fare esami sull’attività pastorale o politica di
persone o gruppi. Tutto l’insegnamento di papa Benedetto XVI e la conseguente azione pastorale del presidente della CEI, card. Ruini, si sforzano di argomentare il dovere di un’azione tangibile ed esplicita, da parte della Chiesa, per offrire allo sbandamento dell’uomo contemporaneo e alla crisi della modernità occidentale un approdo stabile nel sistema di valori racchiusi nello scrigno del cattolicesimo. A fronte di una società italiana attraversata dall’incertezza e dalla fragilità, dai rischi di una crisi, che è di valori e non solo economica, la Chiesa rivendica con determinazione il diritto-dovere di esercitare una presenza che incida concretamente sulle decisioni, influenzi le scelte, condizioni la rotta. Si tratta di un disegno di vastissima portata che fa leva sulla forza identitaria del cattolicesimo piuttosto che sulla sua capacità di apertura e di contaminazione. Pur prendendo atto di una simile scelta pastorale, discutibile ma molto chiara, non è possibile sfuggire alla complessità e profondità dei temi che essa suscita. E verso di essa non sono compatibili né atteggiamenti di intolleranza né atteggiamenti di banale adulazione.
Anche nel contesto locale di un piccolo comune, quale è Veglie, in cui le
grandi svolte vengono percepite sempre con ritardo e in cui le novità
vengono sempre importate, saremo chiamati a discutere a lungo delle
conseguenze di questo disegno pastorale, sia sul piano civile che religioso. Veglie ha vissuto negli anni ’50 e inizi degli anni ’60 in modo drammatico l’esperienza di uno steccato, tra laici e cattolici, nella vita pubblica. In quegli anni furono le condizioni socio-economiche di miseria e di povertà a creare uno scontro tra chiesa locale e forze politico-istituzionali. Oggi, invece, paradossalmente, lo steccato può essere un vuoto o un baratro tra le due realtà, se guardiamo alle grandi sfide della realtà locale: disoccupazione, nuove povertà, corruzione, aborto, crisi familiari, ecc. La Chiesa locale appare chiusa nel suo ruolo di cura dell’aspetto spirituale, inteso come il modo con cui ogni uomo vive il rapporto con la fede, il Comune chiuso nel suo ruolo di cura dell’aspetto politico, inteso come l’organizzazione dei servizi al cittadino. Nel rapporto reciproco, sulle grandi questioni, le due realtà appaiono insignificanti e marginali.
E’ un bene, da tutelare ad ogni costo, che Chiesa locale e Comune rimangano
autonome e distinte e che “nessuna di esse deleghi o attribuisca poteri
all’altra o, per contro, divenga strumento dell’altra” (Giuseppe Dossetti).
Ma distinzione non può significare separazione. Tracciare nitidamente una linea di confine tra le due sfere e indicare con precisione che cosa significa collaborazione tra Comune e Chiesa locale non è facile. Anzi, nel vuoto di una autentica collaborazione appaiono sempre più evidenti le miserie dei suoi surrogati o, per meglio dire, delle reciproche strumentalizzazioni o invadenze: da una parte è sempre più evidente, anche a Veglie, la cinica versione dell’ateismo devoto, cioè di coloro che non credono a nulla ma che si servono della realtà ecclesiale per interessi partitici o elettorali e dall’altra, non meno evidente, appare la furba versione del clericalismo confusionario, cioè di qualche guida pastorale che, per protagonismo o anche in buona fede, è tentato di trasformare l’Ente locale in sacrestia e il Sindaco in chierichetto.
Queste invadenze fanno aumentare i pregiudizi, soprattutto, nei confronti di
chi guida la comunità religiosa e generano, tra Chiesa locale e Comune, le
dannose versioni di un rapporto spurio che vanno dall’intolleranza alla
banalità fino ad un certo tipo di conformismo, mai sincero ed efficace. Ispirandosi, invece, allo stile di un rispetto e di una collaborazione alta tra comunità ecclesiale ed Ente locale non è faticoso, soprattutto oggi che siamo più liberi dai retaggi delle rigidità ideologiche, riconoscere da parte dell’Ente locale il valore sociale di alcune presenze strutturate della comunità ecclesiale (Azione Cattolica, Comunità Neocatecumenali, AGESCI, ecc.) nel tessuto del nostro inadeguato e precario stato sociale. L’asilo Verrienti, i due oratori (SS. Rosario e Sant’Antonio), le Caritas parrocchiali, il volontariato cattolico, ecc. costituiscono risorse persino pubbliche, al pari delle altre numerose forme di organizzazione sociale. Ma una sana collaborazione tra la realtà ecclesiale e quella politica si difende educando soprattutto la comunità ecclesiale a non scivolare dalla categoria del diritto riconosciuto alla categoria del favore discrezionale, se non personale. E di certo il carattere religioso di qualche iniziativa non può giustificare elargizioni pubbliche senza il rispetto delle regole procedurali del caso. La sana collaborazione richiede, inoltre, che le tre parrocchie, pur nella diversità dei bisogni, abbiano un unico stile nel rapporto con l’Ente locale e che questi rifiuti i rapporti privilegiati con una di esse, come, purtroppo, è successo con la visita agli anziani ammalati, di una sola parrocchia, da parte di un Parroco e del Sindaco, nelle feste natalizie Natale 2005.
Riteniamo, infine, che, se Comune e Chiese locali intendono affrontare
insieme in modo autorevole le gravi sfide poste dalla modernità, hanno una
priorità su cui convergere: lavorare per la formazione di una classe
dirigente locale consapevole e cosciente del proprio ruolo. La formazione
alla politica e al bene comune, che oggi nessuno cura, è il primo terreno in
cui, insieme, istituzioni civili e religiose possono seminare per costruire
il futuro. Questo può apparire un compito solo dell’istituzione civile, ma
non è così. L’esperienza, molto triste anche a Veglie, delle enormi
difficoltà nell’individuare e coinvolgere laici cattolici preparati nella
vita amministrativa, deve spingere la gerarchia locale a liberarsi dalla
tentazione di pensare che la complessità di questo tempo si possa risolvere
con la devozione e la precettistica piuttosto che con la fatica della
costruzione di coscienze critiche e mature.
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