Dal
Quotidiano di Lecce e dalla Gazzetta del Mezzogiorno di Domenica 10 Giugno 2001
Dal
Quotidiano di Lecce
Di
Emidio confessa e si avvicina la verità sulla strage della Grottella
Avrebbe
già confessato di aver guidato la banda di quindici rapinatori che il 6 dicembre uccisero tre
vigilantes della Velialpol, ferendone altri tre e fuggendo con tre miliardi di lire. E per dare
credito al suo racconto ha fatto trovare le armi e l'esplosivo utilizzati nel sanguinoso
assalto di Copertino. Muso contro muso: Cataldo Motta contro Vito Di Emidio, il miglior
magistrato antimafia salentino contro il più sanguinario dei suoi avversari. Motta non
vuole solo parole, ma soprattutto fatti. E quell'altro raccoglie la sfida perché
sembra provare un sottile piacere a ricordare le sue imprese. «Dottò',
adesso le racconto cose che neanche si immagina». «Di Emidio, mi dia le prove».
Ed ecco i
carabinieri del Ros di Lecce sguinzagliati per casolari con "Bullone" che è una specie
di computer e ha una piantina stampata nel cervello perché le carte non se le portava
mai dietro. Da un vecchio trullo a una discarica, da un casolare a un muro a secco:
gli arsenali della malavita non sono più un'unica gigantesca armeria ma una caccia al
tesoro e se per caso ci arrivano prima i carabinieri, pazienza, il grosso non lo troveranno mai.
Tre kalashnikov là,
quattro fucili qua, le bombe a mano, un intero pomeriggio di scavi e paziente inventario. Una
specie di Pompei della Sacra corona con le armi seppellite ancora bollenti e i
cadaveri che spuntano sotto cumuli di detriti e sembrano avere ancora
scolpita nella rigidità dei volti la disperazione e il terrore. Giuseppe Scarcia, rapito,
torturato e ucciso in mutande; i tre vigilantes di Veglie dilaniati dall'esplosivo per un milione
e otto al mese.
Motta glielo ha fatto
sudare questo pentimento. Sarebbe stato troppo comodo. Troppo semplice. Troppo scontato. Lo
ha cucinato nella sua stessa acqua, lo ha spinto a calare subito gli assi perché sennò
nessuno lo avrebbe salvato dalla prigione. E Di Emidio vuole primeggiare anche da pentito,
non può essere uno dei tanti. Un delirio di onnipotenza. E via con i nomi dei suoi
complici, di quelli che hanno diviso con lui le imprese e i bottini.
In cima alla lista ci sarebbe
uno dei più pericolosi latitanti sardi, Marcello Ladu, esperto di rapimenti e mago dell'esplosivo. Quando otto giorni fa
una telefonata anonima annunciò a Brindisi la presenza di un ordigno in ospedale, i
carabinieri impacchettarono in fretta e furia Di Emidio trasferendolo in carcere perché Ladu è
capace di buttare giù un palazzo intero. E le voci di un possibile
pentimento di "Bullone" si erano già diffuse.
Brindisini,
leccesi e sardi. I cadaveri dei tre vigilantes erano ancora caldi quando il
quadro era già chiaro. Si parlò subito di Di Emidio e del suo amico dinamitardo, finirono in
cella due pastori sardi, Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau, accusati di aver aiutato la
banda. Brindisini, leccesi e sardi, come per l'omicidio Scarcia. I conti cominciano a tornare.
Ma il faccia a faccia tra
Motta e Di Emidio è ancora alle schermaglie iniziali. I mitra e le bombe sono finiti nel
carniere e il generale Aldo Piccinno, decano dei periti balistici,dovrà farci gli
straordinari per confrontare bossoli e ogive. Le perizie, ed è qui la novità,
non serviranno però a scoprire dove quelle armi sono state usate ma semplicemente a
confermare le dichiarazioni del pentito. «Fatti, signor Di Emidio, fatti».
Lui racconta e i Carabinieri scrivono, Motta si stropiccia la barbetta,
impassibile come sempre. "Bullone" parla velocemente e si mangia le parole: scuole finite
troppo
presto, un retroterra criminale nato tra i ladri d'auto, una specie di college della malavita
perché se non sai rubare una macchina non puoi fare le rapine.
E parla
della sua latitanza con spacconeria: le sue visite agli amici, il sabato sera in
pizzeria a Tuturano, il giovedì al mercato e qualcuno giura che l'altra domenica fosse
con alcuni suoi ragazzi allo stadio di via Del Mare a vedersi il Lecce.
Totò Riina disse: «Io
stavo qua, nessuno mi ha cercato». E "Bullone" non si era quasi mai mosso eppure c'era
mezzo stato maggiore del Ministero che gli dava la caccia con l'ausilio
delle apparecchiature più sofisticate.
Una
masseria presa in affitto alla periferia del rione Sant'Elia e pagata come una
super-villa a Beverly-Hills (una quindicina di milioni al mese) perché se uno
rischia a ospitare un latitante deve pure garantirsi la vecchiaia e magari un
buon avvocato. Lui, il sardo e una squadra di ragazzi pronti a tutto. Anche la loro lista è fatta: nome,
ruolo e delitto. Qualcuno porta un cognome famoso perché ormai la Sacra corona è quella
della seconda generazione e "Bullone" faceva presa soprattutto sui ragazzini: un mito,
una specie di monumento all'imprendibilità e alla spregiudicatezza. Sono quelli capaci
di accopparti per un colpo di clacson al semaforo o di accoltellarti perché hai difeso la tua
ragazza in discoteca.
Per ora non esistono provvedimenti di cattura perché i
tempi non sono maturi, ma loro, i ragazzi del boss, hanno cambiato aria. Anche perché
quel pentimento muta gli scenari e i pericoli potrebbero non arrivare solo dalle divise
dei carabinieri.
E' la prima volta
nella storia un po' schizofrenica della Sacra Corona che un collaboratore di
giustizia compila i verbali e poi scende in strada per appiccicarci sopra
il timbro di autenticità. La famosa verifica viene fatta così in tempo
reale con Motta che è un mastino e non molla e quell'altro
che scappa avanti e vorrebbe raccontare nuove imprese, delitti agghiaccianti,
rapine clamorose, spiegare altri retroscena, stupire con effetti speciali. «Questo me lo
racconta un'altra volta, signor Di Emidio». E arrestare le sue parole è difficile almeno quanto
lo è stato mettergli le manette: ha agito per i soldi, ha ucciso per vendetta o solo per
antipatia, ma gode, gode oltre ogni ragione, nel raccontare le sue imprese sanguinane. E questo
è ancora più agghiacciante.
di
Gianmarco Di Napoli
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno
Si
tenta di fare luce sulla strage di Copertino, dove furono assaltati due
furgoni della Velialpol e tre vigilantes uccisi
Anche
lui nel commando? Un identikit lo accuserebbe
Ma,
al momento, dietro le sbarre ci sono soltanto i due pastori sardi, De Pau
e Congiu
Che
Vito Di Emidio, arrestato solo pochi giorni fa dai carabinieri mentre su
di una Lancia Thema stava percorrendo a fari spenti la Brindisi-Sandonaci,
potesse avere a che fare con la strage della «Grottella», gli
investigatori lo hanno sospettato sin dal primo momento.
Dallo stesso giorno in cui, era la prima mattina del 6 dicembre del '99,
un gruppo composto da sei, forse anche otto banditi, assaltò sulla
Copertino-San Donato, i due furgoni della «Velialpol».
Poche
ore dopo il «colpo», che fruttò un miliardo in contanti destinato alle
banche della zona, ma che provocò anche la morte di Luigi Pulli, Rodolfo
Patera, e Raffaele Arnesano, ed il ferimento di altre quattro guardie
giurate, attraverso le prime testimonianze, i carabinieri riuscirono a
realizzare un primo identikit. Una «traccia» la cui somiglianza con
l'allora temuto latitante, parve subito impressionante.
Di lì a qualche giorno, gli investigatori, uomini dell'Arma da una parte,
ed agenti di Polizia dall'altra, realizzarono poi sulla scorta delle varie
testimonianze, gli identikit ufficiali. E la somiglianza con Di Emidio,
divenne ancora più evidente.
Da
allora è però trascorso un anno e mezzo, ma gli autori della strage non
sono stati ancora scoperti. Né è stato dato seguito ai sospetti che
qualcuno, tra Copertino, Veglie e San Donato, potesse aver tradito i
vigilantes. Per quel «fattaccio», dietro le sbarre ci sono sì due
uomini, i pastori sardi Gianluigi De Pau e Pier Luigi Congiu, ma per loro,
l'unica accusa in grado di reggere, nel processo in corso, sembra quella
del favoreggiamento.
Le dichiarazioni di «Bullone», al momento soltanto aspirante pentito,
dunque, se supportate dalle prove, potranno finalmente colmare questa
penosa lacuna e rendere giustizia a chi continua a piangere le tre guardie
giurate.
|
Dal
Quotidiano di Lecce e dalla Gazzetta del Mezzogiorno di Lunedì 11 Giugno 2001
Dal
Quotidiano di Lecce
Il
primo verbale del boss: «Fui io a guidare l'assalto»
Dopo
le confessioni di Di Emidio, braccati i complici del boss. E' caccia al
latitante sardo.
Vito
Di Emidio, il boss che ha deciso di collaborare con i magistrati, si è
autoaccusato della strage di Copertino, indicando anche i nomi dei complici, che sono braccati. I
parenti dei vigilantes uccisi chiedono giustizia e non sono disposti a perdonare: «Quell'uomo,
dicono, non merita neppure di vivere». Ieri intanto è stato notificato l'avviso
di garanzia a uno dei tre indagati per il delitto Scarcia. Gli altri due
sono irreperibili.
Come i
briganti che si accampavano sulle montagne e calavano nei paesi
all'imbrunire per assaltare e uccidere: accomunati dalla stessa determinazione, dalla voglia di
denaro e dal disprezzo della vita umana. Così Vito Di Emidio aveva trovato degna compagnia
per la sua sanguinosa latitanza e aveva formato una banda organizzata in modo
tale da poter agire con identica efficacia nelle province di Brindisi e di
Lecce. Composta dunque da malavitosi salentini che si erano sganciati dalla rigida
gerarchia della Sacra corona unita e che avevano creduto nei folli progetti di quest'uomo
assetato di denaro e di potere.
Ma
la vera arma vincente era l'alleanza con alcuni dei pastori sardi che vivono nelle
masserie disseminate nel Salento. Tanti, molti di più di quanto si possa immaginare.
Una specie di ragnatela invisibile alle forze dell'ordine ma
efficientissima sia nella fase di copertura che di appoggio
logistico.
Per creare quest'alleanza
decisivo è stato 1'incontro tra Di Emidio e Marcello Ladu, un giovane sardo che ha molti
parenti nel basso Salento e una perfetta conoscenza di questo territorio. Da tempo è
finito nel mirino delle forze dell'ordine anche se "solo" con l'accusa di associazione
per delinquere finalizzata allo spaccio di droga. Per questo motivo era finora
ricercato in Puglia. Tra i due, "Bullone" e il sardo, è nata subito una certa
sintonia anche perché - come ha raccontato Di Emidio al procuratore
Cataldo Motta - Ladu è persino più feroce e sanguinario di lui. E per di
più ha una familiarità con l'esplosivo da far invidia a un artificiere.
Così
è nato il sodalizio che in questi anni si è reso protagonista delle
imprese più brutali. Come la strage dei Copertino: Di Emidio, nel primo
interrogatorio reso a Motta, si è autoaccusato di quell'omicidio, ha fatto il nome di Ladu
e di altri sette uomini che parteciparono a quella rapina sanguinosa. I1 piano venne studiato
tavolino, le armi rastrellate da quattro depositi creati nelle campagne della provincia di
Lecce, Di Emidio si occupava dell'assalto armato, Ladu di far saltare in aria i mezzi blindati dei
vigilantes. Gli altri due sardi, gli unici finiti dentro per la strage, avrebbero fatto da basisti aiutando poi i
killer nella fuga.
I1 boss pentito ha anche
garantito che buona parte delle armi che ha fatto ritrovare ai carabinieri del Ros furono
utilizzate nel massacro di Copertino e prima ancora nell'assalto al
portavalori alla periferia di Veglie (tre vigilantes feriti) e nella rapina a un gioielliere
di San Pietro Vernotico. Sarà
la prova che potrebbe confermare l'attendibilità delle sue dichiarazioni e far scattare le
prime ordinanze nei confronti dei complici. Primo fra tutti naturalmente Ladu, che a
questo punto diventa il ricercato numero uno nel Salento.
Tra i componenti della
banda, ha spiegato Di Emidio, esisteva una sorta di accordo di mutuo soccorso nel senso che
nel momento in cui qualcuno aveva da risolvere una questione personale nella propria
zona poteva contare sull'appoggio e l'aiuto degli altri. Così Di Emidio si
presenterà senza troppi scrupoli all'appuntamento con Cosimo e Fabrizio
Toma (padre e figlio), trucidati a Collepasso, e Ladu con alcuni leccesi accompagneranno "Bullone" a
sbrigare la sua "faccenda" con Pino Scarcia, lo stalliere di Buccarella, colpevole
di aver mancato di rispetto al latitante e quindi torturato e infine ucciso dopo essere
stato prelevato a Tuturano.
Anche ieri, nonostante la
giornata festiva, la procura distrettuale antimafia di Lecce e i carabinieri del Ros hanno
lavorato a tambur battente perché la notizia del pentimento del boss brindisino, il
ritrovamento dell'arsenale nelle campagne del Leccese e quello del cadavere alla periferia di
Avetrana (Taranto) hanno provocato una tale agitazione negli ambienti malavitosi salentini che
si temono fughe di massa (in parte già avvenute, almeno da parte dei soggetti
più direttamente legati a Di Emidio) e inquinamento delle prove.
I1 procuratore Cataldo
Motta, ma anche gli altri tre magistrati della Dda leccese interessati, hanno un elenco
molto dettagliato degli argomenti che intendono toccare con il pentito: rapine in banca, ma
pure traffico internazionale di
droga e di armi. Non tralasciando il contrabbando di sigarette, anche se quest'ultimo
nel quadro di vicende così
drammatiche potrebbe passare in secondo piano. E alla porta bussano già
altre Procure che si occupano di rapine sanguinarie che potrebbero essere state compiute
dalla banda salentina: come quella avvenuta all'inizio dell'anno a Treviso e costata la vita
a un'altra guardia giurata.
di
Gianmarco Di Napoli
Dal
Quotidiano di Lecce
«Quell'uomo
non merita di vivere»
Il
dolore dei parenti delle guardie trucidate
È
l'uomo chiave, il bandolo per sbrogliare l'intricata matassa
delle indagini sulla strage della Grottella. Vito Di Emidio, l'ex "primula rossa" della Scu,
pronto a collaborare con i magistrati subito dopo l'arresto, sta conducendo gli
investigatori verso gli altri autori dell'assalto ai due furgoni portavalori della Velialpol
in cui furono trucidati i vigilantes Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli, tutti di
Veglie. La notizia delle rivelazioni di "Bullone" è giunta anche ai familiari delle vittime,
riaccendendo in loro la speranza di una svolta ma, soprattutto, riportandoli indietro
alla livida mattina di quel 6 dicembre '99 che sconvolse irrimediabilmente le loro
vite.
I1 tempo sembra essersi
fermato tra le mura dell'abitazione di Maria Conte, vedova Patera, al civico 20 di via Bellini. Al
telefono risponde il figlioletto, allegro e con voce squillante, tutto preso dai giochi con la sorella
minore. Lei invece ha un tono decisamente diverso, assente e consapevole allo stesso tempo.
Non è al corrente della vicenda riguardante il boss. Per scelta. "Non so niente e non voglio
sapere niente - dice - da quel giorno maledetto non guardo più i notiziari e non leggo i
giornali». Non è rassegnazione la sua, ma un atto d'amore verso i due
figli, un modo per tenerli lontani il più possibile da quel dolore che lei, invece, si porta dentro come
un fardello opprimente, un pesante compagno di viaggio. «Devono prenderli, quegli assassini»
aveva gridato con tutta la sua rabbia di giovane vedova, un giorno, Maria. Oggi forse la sua
sete di giustizia potrà essere soddisfatta e così quella del suocero, Antonio Patera, padre di
Rodolfo, che aveva dichiarato di avere «piena fiducia negli inquirenti». E' tutto nelle loro mani
adesso.
Lo sa bene Gianni Pulli,
figlio maggiore di Luigi, carabiniere in servizio presso il comando di Firenze: «Sì, la giustizia, i
giudici... - dice -, è tutto da vedere e non mi faccio molte illusioni». Suo padre fu dilaniato dallo
Scoppio di un ordigno e da una sventagliata di armi da fuoco, e solo perché stava facendo il suo
lavoro, onestamente. «Ho letto dell'arresto di Di Emidio qualche giorno fa
- spiega Gianni - ma non sapevo delle ultime dichiarazioni in merito alla
strage». La collaborazione di "Bullone" avrà certo un tornaconto:
sconto di pena, protezione garantita ai familiari eccetera. È questa l'altra faccia della medaglia.
Gianni è un carabiniere, ma è anche il figlio di una vittima innocente;
vittima lui stesso, dunque: «È tutto calcolato - sbotta nascondendosi dietro un
sorriso ironico - quell'uomo avrà tutto ciò che vuole e soprattutto la vita,
che invece è stata tolta a mio padre. Questo non è giusto, dovrebbe restare in carcere fino al
resto dei suoi giorni e senza godere di alcun trattamento di riguardo». I1 ragazzo ha due sorelle
minori e una madre, Antonietta Casavecchia, annientate dal dolore. Non può
dimenticare né perdonare. «L'impeto e il dolore della tragedia - dice il giovane
- magari ti portano ad aver veglia di
consumare vendette, ma sono un carabiniere ed innanzitutto devo essere fiero del lavoro svolto dai
miei colleghi con la
cattura di Di Emidio».
Le indagini dunque
entrano nel vivo, ci sarà da lavorare per gli inquirenti. Ma nell'aria c'è odore di
disillusione. «"Bullone" ha abbastanza denaro - dice Gianni Pulli - da
pagare profumatamente avvocati eccellenti che lo difendano nella maniera migliore.
Denaro guadagnato magari ammazzando gente onesta come mio padre. Ci sono prove a suo
carico? Ben venga. Ma chi dice che la mano della giustizia non sarà forzata, magari con atti
intimidatori?». Parole comprensibili, quelle del carabiniere, dettate da un
dolore che non da pace ed ha bisogno di sfogo. «L'imputato potrebbe gettare fumo negli occhi -
pronostica il ragazzo - ad ogni modo sono molto contento del fatto che sia stato
catturato. Certo, ci saranno nuove indagini, accertamenti, spunteranno nomi
magari. Spero solo che siano i nomi giusti. È una storia lunga e complessa, di certo ne vedremo
delle belle».
di
Fabiana Pacella
Dal
Quotidiano di Lecce
I
commenti dell'Istituto di vigilanza
«Aspettiamo
in silenzio il risultato del lavoro degli investigstori»
«Non
voglio aggiungere altro almeno per ora», esordisce così il maggiore
Giovanni Palma, comandante dell'Istituto di vigilanza Velialpol,
all'indomani delle scottanti dichiarazioni del superboss della Scu Vito Di
Emidio in merito alla strage della Grottella, quella tragica mattanza in
cui persero la vita tre suoi uomini, tre guardie giurate, impegnate con
altrettanti colleghi in un servizio di trasporto valori.
«E'
prematuro parlare - dichiara secco Palma - è prematuro fare commenti
anche perché è ancora tutto da vedere. Lasciamo che l'indagato parli
davvero, poi si vedrà», dice. Ma il cerchio sembra stringersi,
potrebbero a breve saltare fuori i nomi dei componenti del commando
omicida.
«Non
è il caso di intralciare il lavoro degli inquirenti con dichiarazioni
avventate», conclude.
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno
L'ex
latitante Di Emidio continua a fare dichiarazioni. Nuovi particolari sull'
«assalto» ai due furgoni portavalori della Velialpol
Strage,
ora il boss fa i nomi del commando
Tirato
in ballo un personaggio del Casaranese. Il ruolo svolto dai due pastori
L'ex latitante della
Sacra corona, Vito Di Emidio, continua a fare dichiarazioni, ed uno dopo
l'altro, si alzano i veli sulla strage della «Grottella».
Il
brindisino arrestato solo pochi giorni fa sulla Brindisi-San Donaci,
avrebbe già fatto ai magistrati del pool antimafia della Direzione
distrettuale, i primi nomi dei componenti il commando che il 6 dicembre di
due anni fa assaltò i due furgoni portavalori della «Velialpol»,
trucidando a colpi di mitra tre guardie giurate.
Stando
alle scarne indiscrezioni trapelate a palazzo di giustizia, dove anche
ieri sera il procuratore aggiunto, Cataldo Motta, era al lavoro assieme ai
suoi più stretti collaboratori, Vito Di Emidio», detto «Bullone», si
sarebbe dapprima autoaccusato di aver partecipato alla strage, e poi
avrebbe preso a fare i nomi dei complici. Di certo si sa che avrebbe
tirato in ballo un non meglio indicato personaggio della zona di Casarano,
comunque un personaggio già noto alle cronache. E poi avrebbe meglio
determinato il ruolo svolto nell'organizzazione della sanguinosa rapina
che fruttò un miliardo in contanti, dei due giovani pastori sardi Pier
Luigi Congiu e Gian Luigi De Pau. Vale a dire gli stessi isolani da tempo
stabilitisi a Lizzanello, e che all'indomani della strage della «Grottella»
finirono dietro le sbarre. Dapprima con l'accusa di favoreggiamento, e poi
con quella ben più grave di concorso in omicidio volontario plurimo e
tentato omidicio, per via della quale si trovano già sotto processo.
Gli
omicidi sono quelli dei vigilantes Luigi Pulli, Rodolfo Patera e Raffaele
Arnesano, ed i tentati omicidi quelli delle altre quattro guardie giurate,
che per conto dell'istituto privato di vigilanza «Velialpol», di Veglie,
stavano trasportando sulla Copertino-San Donato, il contante destinato
alle banche della zona di Galatina.
Quattro nomi, dunque, compreso il suo, a fronte dei dieci, forse anche
dodici componenti il commando che entrò in azione con quattro vetture ed
un grosso camion, attorno alle ore 8 del mattino. Se Vito Di Emidio non li
ha ancora fatti tutti, quei nomi, gli inquirenti coadiuvati dagli
investigatori dei carabinieri e della polizia, ritengono sia perché l'ex
latitante non risulta ancora inserito ufficialmente nel programma di
protezione che lo Stato assicura ai pentiti di mafia.
Una rivelazione a «spizzico», dunque, quella del boss della Scu, che
fino ad ora ha però già consentito agli investigatori di scoprire nelle
campagne al confine con Avetrana, il cadavere di Giuseppe Scarcia, di
Tuturano, di recuperare a Ruffano e Casarano un imponente arsenale, e,
ancora, di risolvere l'omicidio di un altro tuturanese, Giovanni Maniglio,
ed in ultimo di fare luce sui due duplici omicidi di Fernando D'Aquino e
della moglie Barbara Toma, e del padre e del fratello di questa, Cosimo e
Fabrizio Toma.
Fatto giungere dai magistrati della Dda nel super carcere leccese, «Bullone»
si trova in isolamento, perché al di là dell'ufficialità, la sua
posizione appare proprio quella di un pentito di mafia. In ogni caso, di
un pentito che con le sue dichiarazioni, sta facendo tremare il mondo
della mala.
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Dal
Quotidiano di Lecce e dalla Gazzetta del Mezzogiorno di MArtedì 12 Giugno 2001
Dal
Quotidiano di Lecce
«Ecco
i 7 autori della strage della Grottella»
Tre sardi, due
brindisini e due salentini. Eccola la squadra della morte raccontata e
tratteggiata nei minimi particolari da Vito Di Emidio, boss un tempo spietato, ora gola
profonda in virtù di una cattura che ha avuto dell'incredibile: inseguimento della sua Thema,
l'uscita di strada della vettura, l'arrivo dei carabinieri e la scoperta di "Bullone",
lì ferito in auto, seduto al posto di guida.
Da giorni parla e racconta.
E la prima cosa che ha detto è questa: la strage di Copertino, 6 dicembre
'99, via della Grottella, due portavalori della Velialpol svaligiati, tre vigilantes
uccisi, tre feriti. Ha detto di avervi partecipato, ha detto di aver guidato il commando,
nessuna sniffata per darsi coraggio e aumentare la ferocia, tutta inclinazione naturale
allo stato brado. Più dell'intelligenza poté la violenza. Marcello Ladu,
pericoloso latitante sardo, avrebbe invece provveduto a maneggiare l'esplosivo, a
piazzare l'ordigno sotto il secondo blindato per vincerne la resistenza e sfondarlo.
Il resto lo hanno fatto gli altri. I due pastori sardi da quello stesso giorno
in carcere, per cominciare: Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau, arrestati a poche ore dalla
Strage per ricettazione e favoreggiamento e raggiunti qualche settimana dopo da una
seconda ordinanza di custodia cautelare per concorso pieno in rapina e omicidio, accusa
legata alla mole di lavoro d'indagine compiuta dagli uomini della Squadra mobile della Questura
di Lecce e del Reparto operativo del comando provinciale dei carabinieri.
Ora le dichiarazioni di Di
Emidio completano quel quadro accusatorio, testimoniano la bontà del lavoro compiuto
dagli investigatori e vanno oltre, ricostruendo per intero lo scenario di quella
terribile mattinata di fine autunno. Con Ladu, Di Emidio, Congiu e De Pau sarebbero entrati in azione,
kalashnikov in mano, anche tre altri personaggi, tutti con scarsissimi precedenti alle spalle:
un brindisino e due salentini, uno del Nord Salento e l'altro del Basso Salento, tutti
personaggi già individuati e in qualche modo coinvolti dallo stesso Di Emidio in altre vicende da
lui ora affidate alla valutazione di quattro magistrati della Direzione distrettuale antimafia di
Lecce.
Una mole
impressionante di dichiarazioni. Un fiume in piena, Di Emidio. Ancora ieri è
stato ascoltato nel carcere leccese di Borgo San Nicola. A sentirlo, il sostituto procuratore
antimafia Giuseppe Capoccia. Più che per altri episodi, "Bullone" è stato sentito perché chiarisca
meglio alcuni particolari e fornisca elementi che possano essere utilizzati come
riscontro alle sue dichiarazioni. C'è da stilare un'ordinanza di custodia
cautelare, quella per la strage
di Copertino, cui viene data priorità assoluta rispetto a qualsiasi altra inchiesta nata dalla
collaborazione di "Bullone".
Di Emidio ha già fatto
ritrovare l'intero arsenale da cui il giorno della strage furono prese le armi e
l'esplosivo usati
per bloccare i furgoni e depredarli del denaro custodito ali'interno, quasi due miliardi di lire.
Per essere un riscontro alle sue dichiarazioni, è un riscontro importante. Ma ne
servono altri, e non solo perché qualcuno possa essere arrestato, ma perché
si possa arrivare ad una sentenza di condanna che non sia traballante.
Su questo si concentra il
lavoro di magistrati e investigatori (e alla gestione di questa parte del racconto di Di Emidio
sono impegnati i sostituti procuratori Guglielmo Cataldi e Patrizia Ciccarese, pm nel processo
in corso ai due sardi, oltre alla Squadra mobile e ai carabinieri del Ros).
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno
Ricostruito
davanti a investigatori e inquirenti il terribile assalto ai portavalori
della Velialpol, nel dicembre del '99
Di
Emidio: «In sei nel commando della strage»
Il
pentito tira in ballo il latitante sardo Marcello Ladu e due salentini
Né
dodici né otto: sarebbero stati soltanto sei i componenti il commando
armato di tutto punto, che la mattina del 6 dicembre di due anni fa,
assaltò i due furgoni portavalori della «Velialpol», trucidando tre
guardie giurate.
Tanto, almeno, avrebbe giurato agli inquirenti che lo stanno interrogando,
Vito Di Emidio, l'ex super latitante della Sacra corona, arrestato solo
pochi fa, e subito pentitosi.
Al
procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia, Cataldo Motta,
l'uomo avrebbe anche fatto i nomi dei componenti quel gruppo di fuoco, che
agirono con fucili mitragliatori kalashnikov ed esplosivo, utilizzato per
sventrare i due furgoni all'interno del quale erano contenuti tre miliardi
in contanti, destinati alle banche della zona di Galatina.
Di
Emidio si sarebbe dapprima accusato di aver organizzato la spettacolare
quanto sanguinaria rapina, e di aver quindi guidato egli stesso l'assalto.
Quanto ai complici, l'ex latitante sino a ieri inserito nell'elenco dei
cento più pericolosi malviventi del Paese, avrebbe tirato in ballo il
sardo trapiantato in una masseria di Nociglia, Marcello Ladu , 28 anni,
latitante da due anni perché colpito da un ordine di carcerazione della
Procura di Cagliari per associazione per delinquere finalizzata al
traffico di droga, e poi gli altri isolani Gian Luigi De Pau e Pier Luigi
Congiu, già sotto processo con l'accusa di concorso in omicidio plurimo.
Quanto agli altri due, si tratterebbe di un uomo residente in un paese
poco distante da Casarano, e di un giovane residente invece in un paesino
alle porte di Lecce. Di questi ultimi si sa che lo stesso Di Emidio
avrebbe fatto i loro nomi in ordine ad altri eventi delittuosi
verificatisi nel territorio comunale di Brindisi.
Oltre
a fare i nomi, il nuovo collaboratore di giustizia, che da un momento
all'altro dovrebbe beneficiare del programma di protezione che lo Stato
riserva ai pentiti di mafia ed ai loro familiari, avrebbe anche spiegato a
magistrato ed investigatori come venne organizzato il «colpo» che fruttò
tre miliardi di lire, e le stesse modalità con cui venne messo a segno la
mattina attorno alle ore 8 del 6 dicembre '99, sulla strada della «Grottella»,
che collega Copertino a San Donato.
Nomi
e particolari dell'assalto sono coperti dal più stretto riserbo, ed a
sentire gli inquirenti, anzi, Vito Di Emidio non solo non sarebbe ancora
un collaboratore di giustizia ma starebbe per il momento riferendo
soltanto episodi e circostanze ancora tutte da verificare.
Come
tutte da verificare sarebbero le accuse nei confronti dei tre uomini
indicati come gli assassini del tuturanese Giuseppe Scarcia, il cui
cadavere Di Emidio ha fatto rinvenire ai carabinieri nelle campagne al
confine con la provincia di Taranto. Si tratta dello stesso latitante
Marcello Ladu, che nel Salento è per altro sospettato di aver partecipato
ad alcune rapine, di Pasquale Tanisi, 40 anni, di Ruffano e di Antonio
Tarantini, 28 anni, di Monteroni. A questi ultimi, assistiti
rispettivamente dagli avvocati Alfredo Cardigliano e Massimo Bellini, sono
stati notificati altrettanti «avvisi di garanzia», proprio in ordine al
sequestro ed all'omidicio di Scarcia. E tanto al fine di rendere possibile
l'autopsia, eseguita ieri.
E
da verificare, ancora, sono le accuse rivolte contro i non meglio indicati
assassini di Fernando D'Aquino e della moglie Barbara Toma, uccisi a
Casarano il 5 marzo '98 e del padre e del fratello della donna, Cosimo e
Fabrizio Toma, assassinati invece a Collepasso il 18 maggio dello scorso
anno.
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Dalla Gazzetta del Mezzogiorno di
Domenica 17 Giugno 2001
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno
Gli
investigatori stanno verificando le confessioni di Vito Di Emidio. Troppo
pochi sei componenti del commando
Strage
di Copertino, i conti non tornano
Forse
il «pentito» cerca di proteggere alcuni giovani affiliati da poco
Di
nomi ne aveva fatti sei, compreso il suo e quello del sardo Marcello Ladu.
Ma che la strage della «Grottella» fosse stata davvero opera di sei soli
banditi, gli investigatori non lo hanno mai creduto. Nonostante che a
confessarlo, fosse stato uno degli autori dell'assalto in cui il 6
dicembre di due anni fa, persero la vita tre guardie giurate, ed altre tre
restarono ferite. Vale a dire Vito Di Emidio, il brindisino arrestato dopo
sei anni di latitanza, dai carabinieri delle Compagnie di Brindisi e
Fasano.
Della
strage della «Grottella», dal nome della località che si trova
all'uscita di Copertino, sulla provinciale per San Donato , si è parlato
anche ieri mattina in Procura, durante il primo incontro ufficiale, che il
procuratore aggiunto, Cataldo Motta, ha tenuto sul «pentimento» di Di
Emidio.
«Il
brindisino è ancora soltanto un "dichiarante" - ha sottolineato
il magistrato della Direzione distrettuale antimafia -. E prima di parlare
di pentimento, le sue parole dovranno trovare tutte le conferme».
Come dire: «di quello che ci sta dicendo, non possiamo dirvi ancora nulla».
Meno
che mai, aggiungiamo, che il commando della strage fosse composto da
dieci, forse anche dodici malviventi, entrati in azione a bordo di una
Saab, un'Alfa 164, un pick up Nissan ed un camion, fors'anche a bordo di
due auto d'appoggio per coprire la fuga.
Troppo pochi, dunque, sei uomini per quattro automezzi, volendo escludere
quelli che eventualmente dovevano assicurare il soccorso. Delle due,
dunque, l'una. Dopo aver mentito, Vito Di Emidio avrebbe rivelato la verità
agli inquirenti, e questi, a loro volta, starebbero mantenendo sulle nuove
rivelazioni il più stretto riserbo. Per evitare, come stava per
verificarsi con Tanisi, che qualcuno facesse armi e bagagli, riparando
chissà dove.
Come che sia, l'impressione è che l'ex latitante stia tentando
disperatamente di proteggere altri quattro, fors'anche altri sei killer,
che stando a quanto è dato di sapere, sarebbero tutti suoi fedelissimi.
Giovani del Brindisino reclutati solo di recente, e che Di Emidio vorrebbe
per questo «salvare».
Ma tant'è. «Di Emidio sta fornendo indicazioni sulla strage, sugli
arsenali della Sacra corona, sull'omicidio Scarcia - ha aggiunto Motta -.
Tutte le sue dichiarazioni, sono state raccolte dal collega Giuseppe
Capoccia, che ha realizzato una sorta di "indice" generale degli
argomenti, ma ora tutti i magistrati della Dda dovranno intervenire
nell'ambito delle rispettive indagini».
«L'appuntamento in vista di eventuali nuove scadenze (l'emissione delle
ordinanze di custodia cautelare per strage, omicidi e così via?), dunque,
è per dopo la pausa estiva - ha chiarito il procuratore aggiunto -. Anche
se è prevedibile che per Di Emidio si renda necessario l'ascolto già
durante il processo in corso a carico dei due pastori sardi (Gian Luigi De
Pau e Pier Luigi Congiu -ndr) imputati proprio per la strage di Copertino».
Per il pentimento di Vito Di Emidio, dunque, è ora il momento della
riflessione, perché nessun errore di percorso dev'essere compiuto, perché
il lavoro di carabinieri, polizia e magistratura, non vada disperso.
La cattura del latitante è un risultato di eccezionale portata - ha
concluso Motta -. Soprattutto in termini di sicurezza per le genti
salentine. Ma adesso, per favore, lasciateci lavorare».
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