Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno e dal Quotidiano di Lecce di Lunedì 17 Settembre 2001
Gazzetta
del Mezzogiorno
Strage
della Grottella, questa mattina sesta udienza del processo in Corte
d'Assise
Il
Pentito Di Emidio oggi in aula
Oltre
al suo, l'ex latitante ha tirato in ballo altri quattro nomi
Sesta udienza,
questa mattina in Corte d'assise, del processo relativo alla strage
della Grottella (6 dicembre '99) , in cui persero la vita tre guardie
giurate dell'Istituto privato di vigilanza «Velialpol», di Veglie, ed
altre tre restarono ferite.
Per quell'assalto che ai banditi fruttò un miliardo ed ottocento
milioni, alla sbarra sono finiti i cugini sardi Pierluigi Congiu e
Gianluigi Depau.
Ma mentre il processo era già in corso, il pentito della Sacra corona
brindisina, Vito Di Emidio, il superlatitante catturato dopo sei anni di
ricerche, quali autori della strage ha tirato in ballo altri quattro
nomi. Oltre al suo, i nomi del monteronese Antonio Tarantini; di
Pasquale Tanisi, di Ruffano, e dell'altro sardo trapiantato nel Salento,
e più esattamente a Nociglia, Marcello Ladu (quest'ultimo è
latitante).
Ebbene, oggi in aula, su richiesta dell'accusa, sostenuta dai pubblici
ministeri Guglielmo Cataldi, della Direzione distrettuale antimafia, e
Patrizia Ciccarese, assieme ai cugini Congiu e Depau, a meno di
ripensamenti dell'ultimo momento, comparirà anche il collaboratore di
giustizia.
Se Di Emidio confermerà o meno le accuse pesanti come macigni, che
giusto in qualità di autori della strage - anche se al momento soltanto
presunti -, ha aperto le porte del carcere anche a Tarantini e Tanisi,
è quanto sarà possibile appurare questa mattina nell'aula della Corte
d'assise.
Quotidiano
di Lecce
Il
boss in aula: parlerà della strage?
Vito Di Emidio
comparirà per la prima volta in pubblico a quattro mesi dalla sua cattura: e
stamattina, davanti ai giudici della Corte d'assise di Lecce, dove è in corso il processo per
la strage della Grottella, dovrebbe interrompere quel silenzio dietro il quale si è barricato
da oltre un mese e che di fatto ha interrotto la sua collaborazione con la
procura distrettuale antimafia di Lecce. Secondo indiscrezioni, dopo i
dissapori delle ultime settimane, legati al fatto che l'incolumità dei suoi familiari
sarebbe stata messa a repentaglio da agguati sfumati per poco, l'ex latitante sarebbe
intenzionato a riprendere la collaborazione. E dopo l'intenuzione dei rapporti
con la procura di Lecce, già da questa mattina il discorso potrebbe riprendere
proprio con le dichiarazioni nel processo per la strage della Grottella. Subito dopo la decisione di
collaborare con la giustizia, Di Emidio raccontò ai magistrati leccesi con
estrema precisione la dinamica della sanguinosa rapina ai portavalori che portò all'uccisione di
tre vigilantes:
«Antonio Tarantini
conduceva il camion e aveva con sé una pistola e un kaiashnikov. Io ero a bordo
dell'Alfa 164 con diverse armi tra cui kalashnikov, pistole e fucili; Ladu era a
bordo della jeep armato di un kalashnikov e di una pistola; Pierluigi Congiu
era sulla Saab con un kalashnikov e una pistola. Tanisi e il cognato di Gigi erano
in macchina con me con altre armi. Eravamo forniti tutti di passamontagna:
ricordo che avevamo portato dei giubbotti antiproiettile. Gigi doveva dare il
segnale di quando sarebbero passati di là i blindati e doveva seguirli senza farsi
notare. Dopo il segnale convenuto, siamo usciti con il camion, la jeep e la 164 e ci
siamo trovati nella direzione opposta ai furgoni. Quando il primo furgone è
giunto a tiro, Antonio si è lanciato contro con il camion rimanendo all'interno ed è
sceso solo dopo lo scontro. Nel frattempo Gigi era dietro il secondo furgone e
lo ha bloccato. A questo punto siamo scesi dai mezzi: Gigi ha iniziato a
sparare contro le guardie e nella sua direzione sono accorsi anche Ladu, Tanisi,
l'altro sardo e Antonio. Ricordo di avere visto una guardia più anziana già con il corpo
schiacciato tra il cruscotto e il sedile. A un certo punto ho sentito esplodere la
bomba predisposta da Tanisi che era stata posizionata sul portellone dell'altro
furgone (...)».
Le dichiarazioni di Di Emidio hanno
portato finora a un solo blitz: quello che il 6 luglio scorso ha portato alla cattura
di Pierluigi Congiu, Pasquale Tanisi e Antonio Tarantini. Un'ordinanza di
custodia cautelare in carcere è stata emessa
per i medesimi, gravissimi, capi d'imputazione nei confronti di Marcello Ladu.
Ma il sardo (che riuscì a fuggire la sera in cui venne catturato Di Emidio) è da
tempo latitante.
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Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno e dal Quotidiano di Lecce di Martedì 18 Settembre 2001
Gazzetta
del Mezzogiorno
Clamorose
rivelazioni dall'ex boss Vito Di Emidio. Un
fiume in piena.
L'udienza
riprenderà il 2 ottobre
I
testimoni della strage della Grottella dovevano essere tutti ammazzati.
Lo ha rivelato ieri mattina in Corte d'assise il pentito delle cosche
del Brindisino, Vito Di Emidio , 34 anni, detto «bullone».
La clamorosa rilevazione è stata fatta dopo che il collaboratore di
giustizia aveva già parlato per oltre due ore di fila, ricostruendo le
fasi del sanguinoso assalto ai due furgoni portavalori della Velialpol,
che il 6 dicembre di due anni fa costò la vita a tre guardie giurate
(altrettante restarono ferite) ed ai feroci malviventi procurò invece
un guadagno di quasi due miliardi di lire in contanti.
Due dei testimoni erano stati anche individuati: si tratta di un
benzinaio di Galatina, e di un operaio di Copertino. Il nome e cognome
di quest'ultimo per un certo periodo sono stati anche scambiati con
quelli di un dipendente dello stesso istituto privato di vigilanza
Velialpol, perché in tutto uguali.
Quanto al benzinaio di Galatina, il commando si mosse per ucciderlo,
nella primavera dello scorso anno, ma nonostante che la sua abitazione,
una casa sulla via per Gallipoli, fosse stata anche individuata, l'uomo
non fu trovato e l'agguato venne rinviato.
A salvare sia lui che il copertinese, è poi intervenuto, lo scorso 28
di maggio, l'arresto di «bullone»; ma ancor prima, le diverse strade
intraprese dai componenti il gruppo di fuoco che seminò morte e
distruzione sulla Copertino-San Donato, all'altezza del Santuario della
Grottella.
Il benzinaio di cui s'è detto, avrebbe visto in volto, la sera
precedente la sanguinosa rapina, proprio Di Emidio, che nella Stazione
di servizio da lui gestita, nei pressi dell'Aeroporto militare, si recò
alla guida di una Lancia Thema per fare il pieno di benzina e per
acquistarne altra in una lattina che il benzinaio però non aveva, e che
per questo venne versata «in una busta trasparente, di colore giallino
- ha specificato il pentito - di quelle moderne».
Quanto all'operaio di Copertino, si tratta del testimone che poco dopo
la strage notò Di Emidio a bordo dell'Alfa 164 utilizzata per
l'assalto, transitare nei pressi di Torre Lapillo, con a bordo uno o due
complici banditi.
«Marcello Ladu (uno dei sei componenti il commando assassino) - ha
detto Di Emidio -, aveva preparato un elenco dei testimoni da uccidere.
Ricordo che per individuare quello di Copertino, o forse di Veglie, ora
non ricordo bene, consultammo anche l'elenco telefonico, dove di nomi
come il suo ce n'erano però più di uno».
di
t.b.
Quotidiano
di Lecce
Quell'ultimo
tentennamento di Bullone prima di entrare in aula e iniziare a parlare
Un attimo di
ripensamento, un tentennamento prima dell'udienza, prima di quel salto in avanti, di quella svolta
senza ritorno che sarebbe stata la testimonianza in aula: avesse taciuto e
ritrattato tutto, il profluvio di parole "rilasciato" da "Bullone" e verbalizzato dagli investigatori
sarebbe stato utilizzato solo contro chi ne era stato protagonista, vale a dire lo stesso Vito Di
Emidio. Confermato in aula, invece, sarebbe divenuto un macigno per imputati e indagati.
Così è stato. Alla fine, infatti, Di Emidio s'è deciso e ha varcato la soglia
dell'aula di Corte d'assise, dove i due pastori sardi sono imputati di rapina e omicidio e dove lui è
comparso in veste di indagato di reato connesso, perché - come spiega il pm Guglielmo Cataldi
- è accusato degli stessi reati contestati ai due imputati del processo e agli altri indagati poi
finiti in cella dopo il suo pentimento, vale a dire Pasquale Tanisi, 38 anni, di Ruffano, e
Antonio Tarantini, 27 anni, di Monteroni, o latitanti, come Marcello Ladu, 28 anni, originano di
Villagrande Strisaili, lo stesso paese di Congiu e De Pau. Per evitare che il
tentennamento si trasformasse in qualcosa di piu s'è mossa l'intera Direzione distrettuale antimafia. Poi,
con più di un'ora di ritardo, Di Emidio è entrato in aula e, sotto lo sguardo del suo difensore,
l'avvocato Alberto Chiriacò, ha cominciato a parlare.
«Dovevamo
uccidere due testimoni»
Chissà se la latitanza
prima o il pentimento poi, chissà cosa ha trasformato certo nell'immagine, e chissà quanto nella
sostanza, Vito Di Emidio, 33 anni, brindisino di nascita, salentino quasi d'adozione a considerare gli ultimi tre
anni trascorsi al di qua della linea di confine, soprattutto dalle parti di Nociglia, dove ha stabilito il
suo quartier generale ospite di amici degli amici, e - soprattutto - a considerare le
scorribande senza fine: «Facevamo furti, rapine, omicidi», dice. Su evoluzioni del
terzo tipo non tradisce emozioni. Tra rubare targhe e ammazzare persone nessuna differenza.
Arriva in aula nel processo sulla strage di Copertino, in questo lunedi 17 ripresa (e punto di
svolta) del dibattimento, che sembra il lontano parente di se stesso: almeno
dieci chili in più sulle ultime foto ufficiali, capelli rasi a zero e cicatrice sulla tempia destra, residuo del rocambolesco arresto
dopo l'inseguimento sulla Brindisi-San Donaci del 28 maggio tra
una pattuglia dei carabinieri e la sua Lancia Thema. Messi da parte i proponimenti di non
proseguire la collaborazione
per timore di vendette verso i suoi,
"Bullone" parla davanti alla Corte d'assise presieduta da Elio Romano. Alla fine se
ne starà lì seduto, col microfono in mano, per tre ore, rispondendo alle domande dei tre
pubblici ministeri, il procuratore aggiunto Cataldo Motta e i sostituti Guglielmo
Cataldi e Patrizia Ciccarese, parlando quasi a mezza voce, italiano incerto. Un fare e uno
sguardo che - Lombroso insegna - tradiscono le passioni coltivate fino
all'altro ieri.
Il 2 ottobre la parola passerà agli avvocati Elvia Belmonte e Pasquale
Ramazotti, difensori di Pierluigi Congiu (che Di Emidio chiamerà sempre «Gigi») e
Gianluigi De Pau («il cognato di Gigi»), 26 anni entrambi, di Villagrande Strisaili, Nuoro, unici
imputati per ora a giudizio di questo processo sull'assalto ai due furgoni della Velialpol. Sei dicembre
1999, tre vigilantes uccisi e tre feriti per una rapina da un miliardo e 800
milioni (un miliardo e 300 quelli lasciati sul campo) sulla Copertino-San Donato.
Racconta gli attimi drammatici di quell'assalto e di quello precedente, quando il 2 novembre fu
bloccato un primo furgone della Velialpol tra Veglie e Leverano (tre agenti
feriti, un miliardo e 200 milioni il bottino). E rievoca la rapina a San Pietro Vernotico
del 26 novembre alla gioielleria Valzano (ripulito il negozio, esplosi alcuni colpi di kalashnikov
contro una pattuglia dei carabinieri). Parla delle sue basi d'appoggio a Ruffano, Casarano e Nociglia,
appunto, e poi dice: «Avremmo dovuto completare l'opera uccidendo due testimoni della strage
di Copertino, un benzinaio e un vigilante. Per il primo avevamo anche dato
incarico a Pasquale Tanisi (l'amico di Ruffano, ndr) perché controllasse i movimenti di
quel giovane di Galatina, residente in via Gallipoli e in servizio alla Q8, per scegliere il momento
migliore in cui intervenire, sequestrandolo e interrogandolo per sapere cosa avesse detto agli
investigatori e infine ucciderlo. Per il secondo, Giovanni Palma (superstite
della Grottella e importante per un episodio della sera precedente, quando dice di aver visto uno dei
sardi prima del furto del camion usato dai killer, ndr), avevamo consultato la guida telefonica, ma
ce n'erano troppi". Non se ne è fatto nulla, né per l'uno né per l'altro.
Ma non dice perché, Di Emidio: non in aula, non nei verbali degli interrogatori già resi.
«Sono stato latitante per 5 o
sei anni. Mi ha ospitato Femando D'Aquino a Collepasso, l'ex fidanzata di Marcello Ladu a
Minervino. Poi lo stesso Ladu mi ha trovato una casa a Nociglia, da Oronzo Campa e Antonietta
Gnoni, dove sono stato per due anni e mezzo».
Nel frattempo conosce
Tanisi, conosce Antonio Tarantini, giovane di Monteroni. E poi, tramite Ladu, i due pastori
imputati del processo.
«Ladu
ebbe l'idea dell'assalto ai portavalori. Io mi dichiarai d'accordo, anche se non
avevo esperienza in quel campo. Tarantini diede il suo ok perché non aveva una lira. Io a
Brindisi potevo contare su Vito Cavaliere, poi morto (ammazzato, ndr); così
alla fine chiamai Fabio Maggio, mentre Ladu portò Gigi. Tarantini, tramite un vigilante di
Monteroni, seppe qualcosa sul funzionamento dei furgoni. Ma quello poi s'insospettì e non gli disse
più nulla».
L'assalto avvenne in anticipo
sul programma: neppure il tempo di posizionarsi con i mezzi che Tarantini si scagliò con un camion
sul blindato. «Non ho potuto far
altro che mascherarmi con un paio di occhiali da sole», dice Di
Emidio. Ad agire quei cinque; feriti i vigilantes Andrea Pati, Aldo
Nuzzo e Augusto Tarantino. Poi i
preparativi per il secondo assalto
(in mezzo, la rapina alla gioielleria Valzano: «Non ricordo se contro i carabinieri sparò Gigi o
Tarantini» - Dice Di Emidio - «Ho
chiesto ai miei amici: perché non
facciamo un'altra rapina? Tanto
una volta che li blocchi, gli agenti scendono dai furgoni. Abbiamo
sostituito Maggio, che nel primo assalto s'era dimostrato "ddormisciutu".
Al suo posto sono venuti
Tanisi e il cognato di Gigi. Stavolta però Tarantini voleva un Camion più grande di quello usato il
2 novembre, perché allora s'era
fatto male alla schiena o al sedere, non ricordo».
Vengono rubate
un'Alfa 164 a Galatina e una
Saab 9000 a Vignacastrisi, nascoste in un garage di Copertino «vicino alla
masseria di Giuseppe Pagano, detto Banda» e in uso a Tarantini. E si cerca il camion,
rubato poi a San Pancrazio Salentino.
La sera
prima dell'assalto il rifornimento alla Q8 di Galatina:
benzina nell'Alfa 164 e una tanica
di carburante per il camion. «Ho
scambiato qualche parola con il benzinaio», racconta "Bullone":
è
il giovane che consentirà agli investigatori di tracciare il primo
identikit (che lo stesso dirà poi somigliare a un pregiudicato
di Squinzano più che a Di Emidio) e che il boss ora pentito progetterà di
far fuori insieme con il vigilante. Spiega il collaboratore: «Finiti sottoprocesso Gigi e il
cognato, sapevamo tutto delle carte processuali perché Ladu si era procurato in qualche modo
dai legali i documenti».
L'agguato:
«Tarantini si è lanciato col camion sul primo blindato; Gigi, invece, sebbene gli
avessi detto di lasciar perdere il secondo se questi avesse tentato una fuga,
ha bloccato l'altro furgone. Io mi sono occupato del primo, portando via nove sacchi di denaro e
caricandoli sull'Alfa 164. Tutti gli altri si sono lanciati sul secondo
furgone. Ho sentito sparare colpi di Kalashnikov e fucile e poi esplodere la bomba, portata da Tanisi e
confezionata con fil di ferro per agganciarla ad uno dei fori provocati dalle armi sulla
fiancata del
veicolo. Quando ho visto la carneficina che avevano fatto e che lì la cassaforte
non s'era aperta ho
detto di andar via. Con la radio sintonizzata sulle frequenze delle
forze dell'ordine ho sentito che ci stavano cercando anche con gli elicotteri.
E, dopo aver lasciato le auto e i due pastori, ci siamo nascosti in un trullo fino a sera».
Il
processo continua il 2 di ottobre.
di
Rosario Tornesello
Le
famiglie delle vittime
Nessuno
alla "prima" del pentito
A
Veglie il dolore si fa silenzio
Ha parlato ieri in aula per la
prima volta il super pentito della mafia salentina Vito Di Emidio,
testimone chiave e autore lui stesso dell'efferato assalto ai due furgoni
portavalori della Velialpol datato 6 dicembre '99, assalto che costò la vita alle
tre guardie giurate di Veglie Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli. Una puntata per
riconfermare vecchie e nuove accuse. In quell'aula di tribunale, però,
ieri, mancava qualcuno. I parenti delle vittime, vittime a loro volta, hanno
preferito non presenziare all'ennesima puntata di una storia che per loro è dolore.
«C'era il processo? Non lo sapevo», taglia
corto Maria Conte, la giovane vedova di Patera. I1 tempo e gli sviluppi delle indagini
non hanno piegato il suo corpicino esile nella volontà di dimenticare. Di leccarsi le ferite da
sola, tra le mura di quella casetta al primo piano di via Bellini, con grande dignità.
Dritta nei vestiti neri che ricordano il lutto, «devo pensare ai miei figli - ripete come in una
litania - devo portarli a scuola. Rodolfo è morto». E mentre Di Emidio
ricostruiva il puzzle della strage, con dovizia di macabri particolari, un'altra giornata scorreva lenta
per Antonietta Casavecchia e Annapaola, vedova e orfana di Luigi Pulli. Per Daniela, 14
anni, la piccola di casa, invece, ieri era una
giornata speciale, il primo giorno di scuola.
«Non si sono mai recate in tribunale», chiarisce Gianni Pulli, figlio maggiore
del vigilante, carabiniere in servizio a Firenze. «Mia madre si rivolge al nostro avvocato per sapere
qualcosa - spiega - e poi che senso ha seguire
un processo se dopo quasi due anni si continua ad andare avanti senza giungere mai ad
una vera conclusione?»
Ha saputo dello sciopero della fame cominciato qualche tempo fa da Pierluigi
Congiu, uno dei due pastori sardi arrestati lo stesso giorno della strage. «Lo
avrei lasciato morire», ribatte il giovane. Non ci sarà neanche
la prossima volta, in aula, il carabiniere. «Devo spostarmi ogni volta da Firenze, e poi la
gente lavora, la vita deve continuare», dice.
Così Gino Arnesano, padre di Raffaele, e sua
nuora, Romina Iacovelli. Manda avanti un tabacchino a Torre Lapillo, l'uomo. Evita il
discorso, vive di ricordi.
di
Fabiana Pacella
La
grande paura del boss:
«Proteggete
i miei familiari»
I1 killer
più spietato che il Salento ricordi riesce a sprigionare persino un pizzico di
umanità con quella cicatrice in fronte e la paura per la sorte dei suoi familiari,
proprio lui che ha sulla coscienza una ventina di vedove e un nugolo di orfanelli. E
così il Di Emidio-day si conclude con lui, il sanguinario "Bullone", che confessa al presidente
della Corte d'assise di temere per l'incolumità dei propri familiari. In cima alla lista di chi
medita vendetta nei confronti dei suoi congiunti ci sarebbe addirittura Salvatore Buccarella al
quale di recente Di Emidio aveva ucciso il fido Pino Scarcia, lo stalliere di famiglia,
l'ultima perla della carriera da killer del boss brindisino: lo prelevò da casa per
interrogarlo (sospettava che i tuturanesi volessero tendergli un
agguato) e visto che c'era lo ammazzò con una fucilata, gettandone poi il
cadavere in una discarica. In realtà, pur non potendosi scartare un certo rancore
da parte di Buccarella nei confronti del suo ex affiliato, è lecito pensare che Di Emidio
guardi con una certa apprensione soprattutto ai suoi amici d'un tempo, quelli che
orbitavano nel basso Salento e che già da ieri ha iniziato a inguaiare. «In effetti c'è in
circolazione il latitante Marcello Ladu che potrebbe in qualche modo avere interesse a
vendicarsi con Di Emidio», ammette il procuratore aggiunto Cataldo Motta.
Proprio alcune settimane fa, i familiari dell'ex latitante hanno fatto
pervenire alla procura distrettuale antimafia una missiva nella quale si
richiede una maggiore protezione, dopo alcuni episodi allarmanti e l'arrivo in città di un
plotone di leccesi e sardi intenzionati - secondo loro -a colpirli per mettere a tacere il
pentito. In verità dopo quella richiesta d'aiuto sembra che il
dispositivo di sorveglianza a beneficio dei 17 congiunti di Di Emidio che sono
rimasti a Brindisi (moglie e figli si trovano in una località protetta)
sia stato potenziato. Ma per la protezione vera, quella assicurata dal programma
approvato dal ministero, sarà necessario attendere ancora qualche giorno.
La famiglia Di Emidio può essere considerata un vero e proprio clan in
quanto gli altri fratelli dell'ex latitante, alcuni con precedenti penali,
altri assolutamente incensurati, ma anche cognati e parenti di secondo grado, sin
dal primo momento si sono affidati pienamente alle sue decisioni. Nel senso che ne
hanno prima condiviso le azioni violente e la latitanza aiutandolo in ogni modo,
decidendo poi di restare al suo fianco anche nel momento in cui ha deciso di collaborare
con la giustizia, mettendo di fatto a repentaglio la loro stessa incolumità.
Anche in queste lunghe settimane in cui Di Emidio ha rifiutato di avere colloqui
con i magistrati della Dda di Lecce, i suoi parenti hanno atteso le sue decisioni.
Esaurito il capitolo-lecce, Di Emidio comparirà in aula molto presto anche a
Brindisi per raccontare di omicidi, rapine e attentati estorsivi. La sua
prima apparizione dovrebbe essere quella nel processo contro tre uomini del racket
arrestati dopo un tentativo di estorsione ai danni del titolare di una
concessionaria d'auto. Quei tre, secondo l'accusa, erano suoi uomini. I1 processo si svolgerà a
Brindisi ma nel frattempo tutti attendono il primo blitz legato alle sue dichiarazioni.
di
Gianmarco Di Napoli
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Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno e dal Quotidiano di Lecce di Mercoledì 19 Settembre 2001
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno
Il
brindisino Vito Di Emidio ricostruisce alcune «notti di terrore» nel
Leccese. Ieri mattina in Procura un «vertice» dopo le ultime
rivelazioni
Intere
famiglie sequestrate dai banditi. In sei portarono via un chilo d'oro.
Nuove accuse contro Giuseppe Pagano
Assalti
ai furgoni, ma anche rapine in casa sequestrando intere famiglie. Le
scorribande di «Bullone» non hanno conosciuto sosta. Ed ora che Vito
Di Emidio ha scelto di collaborare, si apre uno squarcio sulla lunga
scia di terrore.
Sono almeno due le rapine in casa compiute dalla banda di Bullone. Una
è quella di Castrignano dei Greci, dove venne sequestrata la famiglia
di un commerciante; l'altra è quella messa a segno a Copertino
nell'abitazione di un gioielliere.
Era l'una di notte quando tre rapinatori fecero irruzione
nell'abitazione di Emanuele Macrì, commerciante di abbigliamento. I
banditi sorpresero l'uomo insieme con la moglie mentre caricavano la
merce destinata ai mercati su due camion. Armati fino ai denti e con il
volto coperto i rapinatori costrinsero i padroni di casa a consegnare
soldi e preziosi, poi s'impossessarono anche dei furgoni. L'autocolonna
venne, però, intercetta dai carabinieri di Collepasso: ci fu un
terribile conflitto a fuoco e i malviventi rinunciarono ai furgoni. «Dopo
l'inseguimento da parte dei carabinieri - racconta Di Emidio - fummo
costretti ad abbandonare i furgoni e poi anche l'auto, una Vectra
bianca, rubata a Galatina. Fuggendo a piedi arrivai a Copertino e chiesi
aiuto a Giuseppe Pagano che avevo conosciuto da qualche mese tramite
Fernando D'Aquino, al quale Pagano si rivolgeva per avere armi e mezzi
per commettere estorsioni. Giuseppe Pagano mi ospitò nella sua masseria
fino alla mattina dopo».
Di Emidio avrebbe poi trovato rifugio in una masseria sulla
Copertino-Carmiano, grazie alla complicità di Antonio Tarantini di
Monteroni. Durante il soggiorno nei dintorni di Copertino venne compiuta
la rapina in casa del gioielliere Valerio Rizzo, sequestrato insieme con
la moglie e i figli. E per quella rapina Di Emidio tira in ballo anche
Giuseppe Pagano che avrebbe suggerito il colpo:
«Devo aggiungere poi che con Giuseppe Pagano avevo commesso una
rapina a Copertino a casa di una persona che vendeva oro nella sua
abitazione». Ad agire furono circa sei persone: «Portammo via
circa un chilo di oro».
Ieri mattina, intanto, c'è stato un vertice in Procura fra
investigatori ed inquirenti. Nel suo ufficio al secondo piano del
Palazzo di giustizia il procuratore aggiunto Cataldo Motta ha incontrato
il vicequestore vicario Rocco Gerardi e il maggiore Antonio Buccoliero,
comandante del Reparto operativo del comando provinciale dell'Arma. E'
stato fatto il punto dopo le dichiarazioni fatte da Bullone nel processo
per la strage di Copertino. Di Emidio ha svelato che vi era un progetto
per uccidere i due testimoni della strage. Ma sia per l'uno che per
l'altro, un vigilante di Veglie ed un benzinaio di Galatina, erano già
state adottate misure di vigilanza.
Dal
Quotidiano di Lecce
Di
Emidio Consegna le briciole del tesoro
Vito Di Emidio ha
consegnato il bottino, o meglio quello che ne è rimasto visto che la latanza gli costava alcuni milioni
di lire al giorno: per dimostrare la sua buona volontà, e
per accedere
al programma di protezione
riservato ai collaboratori di giustizia (proprio in questi giorni è
riunita a Roma la commissione che dovrà decidere sul suo caso e sull'estensione della protezione
ai suoi diciassette familiari), l'ex superlatitante ha indicato agli
inquirenti della procura, antimafia di Lecce il numero di vari conti correnti
bancari, intestati a prestanome, sui quali erano depositate alcune centinaia di
milioni di lire. Si tratta in massima parte dei residui del bottino
delle circa cento rapine delle quali l'ex boss si è assunto la paternità, e in piccola parte
dell'attività di estorsione che a Brindisi veniva gestita a suo nome da
alcuni malavitosi i quali poi gli versavano una parte come si fa per le ditte in franchising.
Di Emidio ha spiegato di
non essere mai stato miliardario nel senso che il denaro incassato dalle sanguinose
scorribande in giro per il Salento veniva in
gran parte impegnato per pagare fiancheggiatori e scorta. Una ventina di milioni
al mese solo per l'affitto della villetta che ha abitato nel corso degli ultimi
mesi della sua latitanza. Dopo le sue dichiarazioni di lunedì scorso in Assise nel
processo per l'assalto mortale ai due furgoni della Velialpol (6 dicembre 1999),
l'attenzione si sposta sui complici che hanno dato ospitalità a Di Emidio nei
suoi 6 anni di latitanza: oltre a quell'Oronzo Campa di Nociglia, che con la
moglie Antonietta Gnoni ha fornito un tetto per due anni e mezzo al boss, anche
Augustino Potenza a Casarano e Vito Cacciatore a Ruffano.
Ma a sconcertare
è soprattutto quel che è emerso ai margini del processo, in particolare dai
verbali che contengono le ultimissime dichiarazioni di Vito "Bullone": sarebbe stato lui,
con il latitante sardo Marcello Ladu, Pasquale Tanisi, di Ruffano, e Antonio Tarantini, di
Monteroni, a incendiare 42 auto tra Gallipoli e Copertino nella notte tra il 23 e 24
febbraio 2000. Per quel fatto sono stati condannati come mandante Giuseppe
Pagano e come intermediario verso il gruppo di fuoco Silvio Pagano, entrambi di Copertino ed
entrambi accusati di aver reagito in quel modo alla retata antiracket
del 14 febbraio precedente in cui erano stati arrestati, tra gli altri, anche i
rispettivi fratelli. Nella verità di Di Emidio viene ora fuori che quell'attentato sarebbe
stato organizzato da Tarantini per inasprire il clima intorno ai Pagano, con i quali
evidentemente non correva buon sangue. «Questo è quello che Di Emidio ha
saputo da Tarantini - spiega il procuratore aggiunto Cataldo Motta - ma non è
detto che la motivazione di quell'incendio non fosse altra. Non dimentichiamoci che lo stesso
Di Emidio, come lui ci dice, è stato anche ospitato da Pagano nella
prima fase della latitanza».
E in effetti
proprio "Bullone" nel verbale d'interrogatorio poi dice: «Prendo atto della
conversazione intercettata in cui Giuseppe Pagano chiede a Silvio Pagano di "trovare qualche
ragazzo quella sera per fargli bruciare qualche macchina"; nulla posso dire
sull'eventuale collegamento tra tale conversazione e la proposta che ci fu fatta da
Antonio Tarantini». Il verbale farà parte degli atti del processo d'appello.
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