Dal Quotidiano di Lecce
e dalla Gazzetta del Mezzogiorno di
Domenica 21 Aprile 2002
Quotidiano
di Lecce
Ieri
mattina la richiesta di condanna per i due pastori sardi implicati
nell'assalto alla Velialpol
«Ergastolo
per i Killer della Grottella»
La
pubblica accusa ha chiesto l'ergastolo per i due pastori sardi imputati
nel processo per la strage della Grottella, alla periferia di Copertino. I
pubblici ministeri Guglielmo Cataldi e Patrizia Ciccarese hanno impiantato
il teorema accusatorio sulle rivelazioni del boss pentito Vito Di Emidio.
L'accusa
non ha avuto dubbi: ergastolo. Il carcere a vita per aver partecipato alla
sanguinosa rapina ai due portavalori della Velialpol - bottino un miliardo e
800 milioni di lire - ma soprattutto per aver provocato la morte di tre
guardie giurate: Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli ed il
ferimento di altre tre, Giovanni Palma, Giuseppe Quarta e Flavio Matino.
Implacabile al
termine di una lunga requisitoria, tenuta ieri mattina nell'aula della Corte
d'Assise di Lecce, è giunta la richiesta dell'accusa: i sostituti
procuratori Patrizia Ciccarese e Guglielmo Cataldi, della Direzione
distrettuale antimafia. Sul banco degli imputati i pastori sardi Gianluigi
De Pau e Pierluigi Congiu - difesi dagli avvocati Pasquale Ramazzotti, per
entrambi, ed Elvia Belmonte, per il solo De Pau - due dei componenti del
commando armato che la mattina del 6 dicembre del '99, lungo la Copertino-San
Donato diede l'assalto ai due blindati.
I1 massimo della pena per
aver provocato la morte di tre persone, gettando nella disperazione tre famiglie.
«Quella mattina, ha
sottolineato Cataldi- tre uomini, Arnesano Patera e Pulli, si sono svegliati di buon'ora e si
sono recati al lavoro così come avevano sempre fatto, senza immaginare nemmeno
lontanamente che non avrebbero mai più fatto ritorno a casa».
Tre
pedine finite per caso nel piano criminale di un gruppo di banditi.
Nessun dubbio, circa la
reale responsabilità dei due imputati. Determinanti nella costruzione dell'intero
impianto accusatorio le dichiarazioni di Vito Di Emidio, il boss brindisino ora collaboratore di giustizia. Sono state le
dichiarazioni rese in aula dal pentito ad inchiodare i due pastori sardi.
Senza incertezze, con dovizia di particolari, "Bullone",
imputato in un procedimento connesso, ha ripercorso tutti gli avvenimenti: dall'ideazione
del colpo sino al giorno della strage.
Affermazioni veritiere o
solo maneggi dell'ex primula rossa della Scu che cerca di ottenere uno sconto di pena?
Sono troppo precise le affermazioni di Di Emidio - ha detto il pm Cataldi - troppo
minuziose le descrizioni dei luoghi, impossibile dubitare che provengano da
chi quei momenti li ha realmente vissuti. L'incontro con Marcello Ladu: è
lui a fargli conoscere i due cugini sardi. Poi la descrizione della masseria "Il Capitano",
quasi un'istantanea del luogo, il trattore, poco distante un motoscafo. Bullone è sincero
afferma Cataldi, quale interesse avrebbe ad auto accusarsi di un crimine
tanto efferato: con grande freddezza -ha ricordato Cataldi - "Bullone" ha confidato ai giudici di
confessare per potersi così avvalere dei vantaggi forniti dalla legge sui pentiti. Ma le
verità di Di Emidio sono pesanti: con le sue parole l'ex boss brindisino stringe il
cerchio intorno ai due imputati.
Ma
prima ancora delle affermazioni di "Bullone", ad incastrare i due sardi sono state
alcune testimonianze rese in aula, come ha sottolineato il sostituto procuratore
Patrizia Ciccarese. L'etnia sarda, l'amicizia con Marcello Ladu, la stessa disponibilità
dei luoghi, - all'interno della masseria Santa Chiara è stata rinvenuta 1'Alfa 164
utilizzata durante la rapina - tutti gli elementi concordano nel dimostrare la
responsabilità di De Pau e Congiu.
La parola è passata
alla parte civile rappresentata dall'avvocato Gaetano Gorgoni che ha sottolineato come la
responsabilità dei due emerga dal quadro complessivo dell'intera vicenda.
Sarà
poi la volta della difesa nell'udienza fissata per il 29 aprile. Parleranno
l'avvocato Elvia Belmonte e Pasquale Ramazzotti. I giudici poi si riuniranno in Camera di
Consiglio per emettere la sentenza.
di
Va. Be.
I
commenti di Romina Iaccovelli, vedova di Raffaele Arnesano
«Una
giusta pena per quegli assassini»
«Il
pm e gli avvocati hanno dimostrato le responsabilità dei due pastori sardi,
la pena chiesta è giusta».
Parole
pronunciate da Romina Iacovelli, la moglie della guardia giurata Raffaele
Arnesano ucciso il 6 dicembre del 1999 insieme ai colleghi Luigi
Pulli e Rodolfo Patera, dopo aver ascoltato il pubblico ministero Guglielmo
Cataldi chiedere l'ergastolo per Gianluigi De Pau e Pierluigi Congiu.
La
vedova di Arnesano ha subito aggiunto: «La giustizia deve fare il suo corso,
ma non ci sarà mai nessuna condanna capace di alleviare il nostro dolore.
La sofferenza resta dentro, perché non riusciremo mai ad accettare che qualcuno sia
stato capace di privarci dei nostri cari solo per compiere una rapina».
E al dolore delle famiglie delle guardie
giurate uccise ha fatto riferimento il pubblico ministero Guglielmo
Cataldi rivolgendosi ai giudici popolari e a quelli togati per chiedere di
condannare all'ergastolo i due pastori.
Parole che hanno aperto una breccia
nel cuore straziato dal dolore di Romina Iacovelli: «Ho voluto essere qui, ma non
so se riuscirò a sopportare ancora la tensione e l'emozione che mi scatenano queste
udienze. Non ho visto i parenti delle altre vittime, ma li capisco: proverò a seguire
le altre udienze, ma è difficile, non riesco nemmeno a tenermi in piedi per lo
strazio».
E le parole del pm non
potevano che scatenare emozione, e anche rabbia, quando hanno fatto riferimento a quelle tre
guardie giurate che la mattina del 6 dicembre del 1999 si sono alzate presto la
mattina per andare al lavoro: ma non hanno fatto più rientro a casa. «Purtroppo io e
Raffaele non avevamo figli», aggiunge la Iacovelli mentre lascia l'aula. «Un
bambino oggi darebbe senso alla mia vita».
di
E. M.
Dal
29 aprile parola ai difensori
La
Corte d'Assise presieduta da Elio Romano (a latere Andrea Lisi) ha fissato
al 29 aprile la prossima udienza del processo a carico di Gianluigi De Pau
e Pierluigi Congiu.
Dopo
le requisitorie tenute ieri dai pubblici ministeri Patrizia Ciccarese e
Guglielmo Cataldi, e dall'avvocato Gaetano Gorgoni, la parola passerà ai
legali dei pastori sardi.
Elvia
Belmonte e Pasquale Ramazzotti cercheranno di smontare il teorema
accusatorio della pubblica offesa per scagionare i loro assistiti o
perlomeno per mitigare la richiesta dell'ergastolo.
La
Corte d'Assise, di cui fanno parte anche i giudici popolari, potrebbero
emettere la sentenza nella stessa giornata.
Il
processo sulla strage della Grottella vede inoltre imputato nello steso
procedimento Vito Di Emidio, mentre stanno seguendo un altro iter Marcello
Ladu, Pasquale Tanisi e Antonio Tarantini.
Gazzetta
del Mezzogiorno
I
pm Guglielmo Cataldi e Patrizia Ciccarese hanno concluso la requisitoria
invocando il carcere a vita per Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau
«La
strage fu premeditata perché volevano i soldi a tutti i costi»
«Condannate
i due sardi all'ergastolo»
Passano
più di cinque ore dall'inizio della requisitoria quando in Assise
riecheggia l'invocazione della pena: ergastolo. L'Accusa chiede il carcere
a vita per Pierluigi Congiu e per Gianluigi Depau, i pastori sardi di 27
anni, accusati di aver partecipato alla strage della Grottella. I due
cognati, giunti a Melendugno per condurre le greggi nella masseria «Il
capitano», sono in carcere dal 6 dicembre del 99: furono arrestati per
ricettazione e favoreggiamento poche ore dopo l'assalto ai portavalori
della Velialpol di Veglie, in cui persero la vita tre vigilantes ed
altrettanti rimasero feriti. Poi la loro posizione si è fatta sempre più
scomoda, finché non sono giunte le confessioni di Vito Di Emidio che
hanno incastrato i due sardi. Congiu avrebbe segnalato l'arrivo dei
furgoni e poi chiuso ogni via di fuga mettendo l'auto di traverso; De Pau
avrebbe partecipato all'azione sparando con un kalashnikov e seguendo le
indicazioni di Vito Di Emidio. Per l'accusa sono colpevoli di omicidio
plurimo premeditato: «L'obiettivo del commando era quello di portare via
il denaro a tutti i costi. E la premeditazione - ha spiegato il pm
Guglielmo Cataldi - sta nell'attenzione con cui il commando ha reperito
mezzi, armi e bombe». Sul capo dei due sardi pendono anche le accuse di
lesioni, detenzione delle armi da guerra e furto. «La loro responsabilità
è stata provata; è minore rispetto a quella di Ladu e di Di Emidio, ma
non per questo diminuisce la gravità».
La requisitoria si apre alle 9.45. Sul banco della pubblica accusa siedono
due pm in gran spolvero: accanto a Guglielmo Cataldi c'è la dottoressa
Carolina Elia. Tocca a lei ricostruire l'intelaiatura su cui si regge
l'accusa. Tassello dopo tassello, il pm delinea il puzzle faticosamente
composto dagli investigatori, arricchito in dibattimento e poi reso
inaffondabile con la confessione di Vito Di Emidio. Dichiarazioni che
poteva rendere solo chi ha partecipato all'assalto e «che non possono
essere il frutto di suggerimenti interessati».
Un punto importante su cui poggia la requisitoria dei pm è l'episodio del
26 novembre del 99 quando il maresciallo dei carabinieri Gianluca Piconese
incrocia una Lancia Thema di colore scuro targata AA976TJ (la stessa
notata nei luoghi dove sono avvenuti il furto dell'autocarro impiegato
nella rapina) che esce dalla masseria «Il Capitano»; a bordo ci sono
quattro persone travisate ed in possesso di armi lunghe. Ma nè De Pau né
Congiu, che abitavano nella masseria, però, denunciano la presenza del
commando in assetto di guerra. Il secondo: i due sardi erano gli unici ad
avere la disponibilità delle chiavi del cancello d'accesso nella masseria
di Santa Chiara dove venne rinvenuta la 164 del commando. C'è poi un
terzo elemento: i rapporti fra Di Emidio e i due sardi. Nonostante Congiu
e De Pau lo abbiano negato, «Bullone» sarebbe stato di casa nella
masseria «Il capitano»: non a caso ha offerto ai giudici una descrizione
attenta e minuziosa del casolare.
La richiesta del carcere a vita riecheggia in un'aula dove il silenzio è
tombale. I due imputati, rinchiusi nella gabbia, non lasciano trasparire
alcuna emozione. Restano granitici e impassibili; si scambiano solo un
rapido sguardo, come chi s'attendeva quella richiesta. Un po' di
agitazione, invece, s'avverte fra le donne (le moglie e le madri) dei due
sardi. Dall'isola sono giunte nel continente per essere vicine ai mariti e
ai figli. Un singhiozzo tradisce il turbamento dopo l'invocazione del
carcere a vita. La sentenza è attesa per il 29 aprile.
di
Gianfranco Lattante
Una
vedova:
«Sono
assassini Meritano quella pena»
«Spero
che ci sia una condanna giusta. E quella che meritano è l'ergastolo».
Romina Jacovelli è una delle vedove della strage di Copertino. Suo
marito, Raffaele Arnesano, è morto dilaniato dall'esplosione della bomba
che, nelle intenzione dei malviventi, doveva servire a sventrare il
blindato per arrivare al carico di banconote.
«Nessuna sentenza mi può restituire mio marito. C'è soddisfazione per
la richiesta dell'Accusa. Ma confido sempre nella vera giustizia, che ci
sarà nell'aldilà». Romina Jacovelli ha seguito l'intera udienza. «Non
è stato facile stare qui. Sono distrutta - racconta - Ogni volta è un
duro colpo, è una ferita che si riapre. Avessi avuto almeno un figlio,
sarebbe stato lo scopo della mia vita».
La vedova non riesce a nascondere la commozione quando il pm ricorda in
aula le vittime della strage: Luigi Pulli morto nello scontro fra il
furgone blindato e l'autocarro dei malviventi; Rodolfo Patera e Raffaele
Arnesano uccisi dalla deflagrazione della bomba.
L'udienza si è chiusa con l'intervento delle parti civili: le famiglie
delle vittime, i superstiti e l'istituto di vigilanza si sono costituiti
con gli avvocati Gaetano Gorgoni, Claudio Di Candia ed Ennio Cioffi.
Le arringhe difensive sono previste per il 29 aprile con gli interventi
degli avvocati Elvia Belmonte, Enrico Ramazzotti e Andrea Moreno. Subito
dopo, i giudici della Corte d'Assise, presieduta da Elio Romano, si
riuniranno in camera di consiglio per la sentenza.
di
g.l.
L'inchiesta-bis
Sei
indagati con le accuse di «Bullone»
Stringono
i tempi per la conclusione dell'inchiesta-bis sulla strage di Copertino.
E' stata aperta dopo la confessione di Vito Di Emidio e, nei prossimi
giorni, dovrebbero essere notificati gli avvisi di conclusione delle
indagini.
Di Emidio ha tirato in ballo Marcello Ladu, 28 anni, arrestato in Sardegna
dopo una lunga latitanza a Nociglia; Pasquale Tanisi, 38 anni, di Ruffano,
e Antonio Tarantini, 27 anni, di Monteroni.
Ecco come Di Emidio ha ricostruito la strage avvenuta sulla San
Donato-Copertino: «Tarantini conduceva il camion ed aveva con sé una
pistola ed un kalashnikov; io ero a bordo dell'Alfa 164 con diverse armi;
Ladu era a bordo della jeep; Pierluigi Congiu sulla Saab. Tanisi ed il
cognato di Gigi erano in macchina con me. Quando il primo furgone è
giunto a tiro, Antonio si è lanciato contro con il camion. Nel frattempo
Gigi era dietro il secondo furgone e lo ha bloccato. A questo punto siamo
scesi dai mezzi: Gigi ha iniziato a sparare contro le guardie e nella sua
direzione sono accorsi Ladu, Tanisi, l'altro sardo e Antonio».
L'inchiesta riguarda anche l'assalto al portavalori della Velialpol
avvenuto il 2 novembre del 99 e che ha rappresentato una sorta di prova
generale della strage. In quel caso del commando avrebbe fatto parte Fabio
Maggio, 27 anni, di Brindisi.
Per cristallizzare le prove è già stato celebrato l'incidente
probatorio. E' servito a blindare le dichiarazioni di Di Emidio e a
dimostrare che il capello rinvenuto nell'autocarro utilizzato nel primo
assalto appartiene ad Antonio Tarantini.
di
g. l.
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